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lunedì 30 gennaio 2006

LA DROGA FA' MALE. E Fini ne è la prova.

LA DROGA FA' MALE. E non c'è distinzione tra Droghe cosiddette leggere e pesanti.

E la prova è l'ormai liberal/libertario vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini. Che ha rivelato ieri da Fabio Fazio (e confermato da Costanzo stamane) di aver fumato uno spinello anni addietro in Giamaica. Aggiungendo d'esser rimasto rimbecillito per due giorni. E' proprio questo ultimo punto ,dei 2 giorni, che il Sig. Fini dovrebbe mettere in discussione, dato le sue uscite e le sue esternazioni degli ultimi mesi. Che lo allontanano sempre di più dai Valori della Destra per la quale molti ragazzi caddero negli anni '70 come il libro di Telese racconta. Vedremo come reagirà la base e gli altri dirigenti, da Storace ad Alemanno fino a Gasparri. Speriamo duramente, perchè non se ne può più. Che se ne vada ! E presto, che forse riusciamo a vincere le elezioni,nonostante lui.

E ritornano attuali le parole di Annamaria Mattei,madre dei fratelli ammazzati a Primavalle, pronunciate dopo Fiuggi:

"La Fiamma è l'ideale per il quale tante brave persone, da Almirante a Romualdi, da Marchio a De Marsanich, a tutti noi, hanno lottato per decenni subendo discriminazioni , senza avere nulla in cambio. La Nostra Famiglia, addirittura, ha dato 2 figli. Ma oltre a Stefano e Virgilio, per la Fiamma ci sono stati tanti altri martiri, Di Nella, Giacquinto, Ciavatta, Zicchieri. E tutti sono stati uccisi per il Nostro Ideale". Cosa dirò ai tre figli che mi sono rimasti quando mi chiederanno perché Virgilio e Stefano si sono sacrificati ? Adesso rispondo che sono morti per un Ideale Sociale e di Libertà. Fini, se vuole, se ne vada a FARE UN ALTRO PARTITO; quello per cui abbiamo sofferto tanto ce lo lasci , perchè non spetta a lui decidere ma a noi che per decenni abbiamo sofferto."

Già. Ed io cosa dirò a Mia Figlia di 14 anni ?

domenica 29 gennaio 2006

DICIAMOLO FORTE: NO AI PACS !

Riconoscere le convivenze? Riconoscerle per legge (introducendo nel nostro codice - in analogia con quanto è avvenuto in Francia - un nuovo istituto, il PACS, cioè il patto civile di solidarietà)? Riconoscerle, indipendentemente dal fatto che i partner siano di sesso diverso o dello stesso sesso? Ammetterle all'adozione? Queste, ed altre domande, stanno crescendo nell'opinione pubblica italiana e diventeranno, con ogni probabilità, questioni non marginali nella prossima campagna elettorale. Di fughe in avanti, chiaramente volte a predisporre l'accettazione psicologico-sociale dell'"evento", ne percepiamo ormai molte. Alcuni Comuni italiani hanno già istituito pubblici registri per le coppie di conviventi (si è però prestata ben poca attenzione al fatto che, indipendentemente dall'irrilevanza giuridica di simili registri, le conseguenti registrazioni sono state numericamente irrisorie).

A Roma, uno dei Municipi della capitale ha tentato (ma per ora il progetto è fallito) di fare lo stesso. Ma soprattutto è sul piano delle provocazioni che sembra che il dibattito si stia collocando: è tipica la convocazione, in una centralissima piazza di Roma, di una manifestazione per "benedire laicamente" le unioni di fatto di personaggi, più o meno mediaticamente conosciuti, da parte di altri personaggi dotati di un carisma fornito loro dalla carica istituzionale di cui sono portatori (come può essere quello di cui gode un altissimo magistrato, che ha posto deplorevolmente tale carisma al servizio di una causa che non è istituzionalmente sua).

In una società democratica la battaglia delle idee non può che essere sempre benvenuta, perché della società democratica il dibattito e il confronto costituiscono l'essenza più preziosa. A condizione, però, che di dibattito e di confronto davvero si tratti. Quando invece al posto delle idee fioccano gli slogan; quando il ragionamento, soprattutto il ragionamento lucido e pacato, viene sostituito da cortei e da invettive; quando si operano assurdi corto-circuiti, appiattendo uno sull'altro clericalismo e difesa del matrimonio e chiamando a raccolta gli anticlericali, come se la lotta a favore del PACS sia una lotta per i diritti civili, oppressi dall'oscurantismo religioso, della democrazia e del suo spirito più autentico non ne rimane più nemmeno l'ombra. Siamo ancora in attesa di un argomento, di un solo argomento consistente, a favore del riconoscimento legale dei PACS. Un breve ragionamento, assolutamente laico, potrà convincerci di quanto appena detto.

Le coppie di fatto si dividono in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi. Delle prime, ragionando in linea di stretto principio, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l'intenzione dei conviventi (apprezzabile o meno che sia sul piano strettamente morale) è proprio quella - pur potendolo fare - di non legarsi giuridicamente e non si vede proprio perché la legge dovrebbe far loro la "violenza" di considerarle comunque legate, sia pure attraverso un labile PACS, contro la loro volontà. Si osserva: ma queste coppie escludono solo il matrimonio "tradizionale", non altre forme di riconoscimento giuridico; se chiedono l'istituzione del PACS è proprio perché vorrebbero usufruire di alcuni diritti (in genere di carattere economico), che non sono attualmente riconosciuti se non alle coppie sposate. Ma la ragione per la quale tali diritti non sono loro riconosciuti è che esse non hanno l'intenzione di assumere quei doveri che sono parte essenziale dell'istituto matrimoniale. Non si può, in buona sostanza, non valutare se non come parassitaria e quindi indebita l'intenzione di coloro che pretendono un riconoscimento pubblico della loro convivenza per ottenere diritti senza doveri.

Peraltro, i giuristi ben sanno che praticamente tutti quei diritti al cui riconoscimento aspirano i partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre nel codice nuovi istituti. Il testamento, ad es., esiste proprio per far sì che si possa trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima. La locazione della casa di comune residenza può essere stipulata congiuntamente dai due partner, in modo tale che al momento della morte dell'uno essa possa, senza alcuna difficoltà, proseguire a carico dell'altro. Non è vero, in altre parole, che ai conviventi vengano negati specifici diritti civili: la differenza rispetto al matrimonio sta semplicemente qui, che quei diritti che la legge riconosce automaticamente alla coppia che contrae matrimonio (assieme a corrispondente numero di doveri) nel caso delle convivenze devono essere, per dir così, attivati dai conviventi stessi. Il che, oltre tutto, è particolarmente coerente col principio, tipicamente moderno, dell'autonomia della persona, un principio che viene costantemente rivendicato ed elogiato dalla cultura c.d. "laica" e che non si vede perché, solo nel caso delle convivenze, debba essere messo da parte.

Le coppie che non possono sposarsi si dividono a loro volta in due sotto-categorie. La prima è composta da coloro che non possono ancora sposarsi per impedimenti transitori di tipo in genere legale (ad es. per la minore età o perché uno dei partner è in attesa del divorzio, ecc.). Per queste coppie l'offerta del PACS è senza senso: la stessa difficoltà, destinata a risolversi comunque da sola, che preclude loro le nozze precluderebbe loro anche il PACS. La seconda sotto-categoria è composta invece da quelle coppie che vorrebbero sì sposarsi, ma ritengono di non poterlo fare, per difficoltà economiche, e rimandano quindi, a volte sine die, il matrimonio.

L'autentico modo di venire incontro ai bisogni sociali di queste coppie non è certo quello di offrire loro un "piccolo matrimonio" (secondo l'incisiva e ironica definizione del Card. Ruini), come è appunto il PACS, che non risolverebbe alcuna delle difficoltà in questione, ma quello di attivare quelle iniziative sociali a favore della famiglia, che oltre tutto sarebbero doverose già in base al dettato della nostra Costituzione.

Cosa resta dunque delle istanze sociali, che giustificherebbero l'introduzione in Italia del PACS? Sembra nulla di nulla. A meno che non si voglia vedere dietro la richiesta del PACS una richiesta profondamente diversa, quella di una prima forma di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, che dovrebbe aprire la strada, in tempi ora come ora imprevedibili, ma che per alcuni dovrebbero essere brevi, ad una compiuta equiparazione al matrimonio tout court del matrimonio omosessuale. Che le cose stiano proprio così è fuor di dubbio, per le esplicite dichiarazioni fatte dai principali rappresentanti del movimento degli omosessuali e dai loro simpatizzanti.

L'onestà intellettuale vorrebbe allora che di questo e solo di questo si parlasse: se cioè abbia una sua coerenza giuridica l'allargare l'istituto matrimoniale alle coppie omosessuali. Ma di fatto questo discorso viene sistematicamente eluso (pur venendo continuamente, ma indirettamente richiamato), perché nessuno è in grado di dare argomenti consistenti per dimostrare la necessità di alterare in modo così plateale e radicale quella struttura eterosessuale del matrimonio, che appartiene a tutte le culture e a tutta la storia da noi conosciuta.

È noto che ciò a cui aspirano le coppie omosessuali (peraltro nemmeno tutte, anzi solo una piccola parte di esse) è, prima ancora che il riconoscimento di diritti economici e sociali, un riconoscimento simbolico del loro rapporto. Ma il diritto non esiste per offrire riconoscimenti simbolici, bensì per dare risposte pubbliche ad esigenze sociali, che superano la mera dimensione privata dell'esistenza. Perché ad es. il diritto dà un riconoscimento pubblico al matrimonio e non all'amicizia? Perché l'amicizia, che pure attiva un vincolo, che può essere in alcuni casi esistenzialmente ancora più significativo di quello coniugale, non ha rilievo sociale, ma esclusivamente personale.

Il matrimonio invece, fondando la famiglia, e garantendo l'ordine delle generazioni, ha un rilievo sociale del tutto caratteristico, che ne giustifica la giuridicizzazione. La coppia omosessuale non crea famiglia: lo impedisce la sua costitutiva sterilità. Come superare questa difficoltà, se non potenziando il carattere mimetico della coppia omosessuale rispetto a quella eterosessuale? Di qui, la pretesa, confusa, ma dotata di una certa qual coerenza, di ammettere le coppie omosessuali (e in specie quelle "sposate") all'adozione. Poco importa che la psicologia dell'età evolutiva insista nel sottolineare quanto sia rilevante l'esigenza per i bambini di possedere una doppia figura genitoriale, maschile e femminile: di fronte all'ideologia, anche le argomentazioni della scienza vengono messe da parte.

Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva, inimmaginabile fino a qualche decennio fa, che ha per oggetto la famiglia e attraverso la famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa; ma per difenderla non c'è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzi tutto il bene umano. Chi ritiene che sia giunto il tempo per ripensare in modo assolutamente radicale la realtà della famiglia ha l'onere di provare fino in fondo le sue tesi eversive e di non darle per evidenti; ha il dovere di entrare in un dialogo serrato con chi è di diverso avviso; e soprattutto deve saper e voler rinunciare alle scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza, che ben poco aiuto possono dare al confronto e al progresso delle idee. Sarebbe preoccupante se nell'Italia di oggi non ci fosse più uno spazio per un tale stile dialogico.

martedì 24 gennaio 2006

Benedetto XVI presenta l'Enciclica "Dio è Amore".

Contro il relativismo imperante che vuole imporci nuovi tipi di Famiglie e di Amore, relativismo che ha purtroppo, come abbiam visto, radici anche nella Nuova Droite Caviar liberal/libertaria neo-buonista e che forse sogna mondi alla John Lennon senza Religioni e massificati in senso materialista senza alcuna aspirazione spirituale,ecco le parole anticipatrici del Santo Padre sulla Sua prossima Enciclica "Dio è Amore":

L'escursione cosmica, in cui Dante nella sua “Divina Commedia” vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella Luce che al contempo è "l'amor che move il sole e l'altre stelle" (Par. XXXIII, v. 145). Luce e amore sono una sola cosa. Sono la primordiale potenza creatrice che muove l'universo. Se queste parole del poeta lasciano trasparire il pensiero di Aristotele, che vedeva nell'eros la potenza che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia scorge una cosa totalmente nuova ed inimmaginabile per il filosofo greco. Non soltanto che la Luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che conosciamo: "O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami a arridi!" (Par., XXXIII, vv. 124-126). In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Dio, Luce infinita il cui mistero incommensurabile il filosofo greco aveva intuito, questo Dio ha un volto umano e – possiamo aggiungere – un cuore umano. In questa visione di Dante si mostra, da una parte, la continuità tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni; al contempo, però, appare anche la novità che supera ogni ricerca umana – la novità che solo Dio stesso poteva rivelarci: la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l'intero essere umano. L'eros di Dio non è soltanto una forza cosmica primordiale; è amore che ha creato l'uomo e si china verso di lui, come si è chinato il buon Samaritano verso l'uomo ferito e derubato, giacente al margine della strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico.

La parola "amore" oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l'amore come tema della mia prima Enciclica. Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una "vista" che "s’avvalorava" mentre egli guardava e lo mutava interiormente (cfr Par., XXXIII, vv. 112-114). Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma. Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio – in quel Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano. La fede non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita. In un'epoca nella quale l'ostilità e l'avidità sono diventate superpotenze, un'epoca nella quale assistiamo all'abuso della religione fino all'apoteosi dell'odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte.

Così, in questa Enciclica, i temi "Dio", "Cristo" e "Amore" sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana. Volevo mostrare l'umanità della fede, di cui fa parte l'eros – il "sì" dell'uomo alla sua corporeità creata da Dio, un "sì" che nel matrimonio indissolubile tra uomo e donna trova la sua forma radicata nella creazione. E lì avviene anche che l'eros si trasforma in agape – che l'amore per l'altro non cerca più se stesso, ma diventa preoccupazione per l'altro, disposizione al sacrificio per lui e apertura anche al dono di una nuova vita umana. L'agape cristiana, l'amore per il prossimo nella sequela di Cristo non è qualcosa di estraneo, posto accanto o addirittura contro l'eros; anzi, nel sacrificio che Cristo ha fatto di sé per l'uomo ha trovato una nuova dimensione che, nella storia della dedizione caritatevole dei cristiani ai poveri e ai sofferenti, si è sviluppata sempre di più.

Una prima lettura dell'Enciclica potrebbe forse suscitare l'impressione che essa si spezzi in due parti tra loro poco collegate: una prima parte teorica, che parla dell'essenza dell'amore, e una seconda che tratta della carità ecclesiale, delle organizzazioni caritative. A me però interessava proprio l'unità dei due temi che, solo se visti come un'unica cosa, sono compresi bene. Dapprima occorreva trattare dell'essenza dell'amore come si presenta a noi nella luce della testimonianza biblica. Partendo dall'immagine cristiana di Dio, bisognava mostrare come l'uomo è creato per amare e come questo amore, che inizialmente appare soprattutto come eros tra uomo e donna, deve poi interiormente trasformarsi in agape, in dono di sé all'altro – e ciò proprio per rispondere alla vera natura dell'eros. Su questa base si doveva poi chiarire che l'essenza dell'amore di Dio e del prossimo descritto nella Bibbia è il centro dell'esistenza cristiana, è il frutto della fede. Successivamente, però, in una seconda parte bisognava evidenziare che l'atto totalmente personale dell'agape non può mai restare una cosa solamente individuale, ma che deve invece diventare anche un atto essenziale della Chiesa come comunità: abbisogna cioè anche della forma istituzionale che s'esprime nell'agire comunitario della Chiesa. L'organizzazione ecclesiale della carità non è una forma di assistenza sociale che s'aggiunge casualmente alla realtà della Chiesa, un'iniziativa che si potrebbe lasciare anche ad altri. Essa fa parte invece della natura della Chiesa. Come al Logos divino corrisponde l'annuncio umano, la parola della fede, così all'Agape, che è Dio, deve corrispondere l'agape della Chiesa, la sua attività caritativa. Questa attività, oltre al primo significato molto concreto dell'aiutare il prossimo, possiede essenzialmente anche quello del comunicare agli altri l'amore di Dio, che noi stessi abbiamo ricevuto. Essa deve rendere in qualche modo visibile il Dio vivente. Dio e Cristo nell'organizzazione caritativa non devono essere parole estranee; esse in realtà indicano la fonte originaria della carità ecclesiale. La forza della Caritas dipende dalla forza della fede di tutti i membri e collaboratori.

Lo spettacolo dell'uomo sofferente tocca il nostro cuore. Ma l'impegno caritativo ha un senso che va ben oltre la semplice filantropia. È Dio stesso che ci spinge nel nostro intimo ad alleviare la miseria. Così, in definitiva, è Lui stesso che noi portiamo nel mondo sofferente. Quanto più consapevolmente e chiaramente lo portiamo come dono, tanto più efficacemente il nostro amore cambierà il mondo e risveglierà la speranza – una speranza che va al di là della morte.

venerdì 13 gennaio 2006

OTTO MESI AD ADEL SMITH.

Il tribunale dell'Aquila ha condannato ieri il sig. Adel Smith a otto mesi per vilipendio della Religione cattolica per aver lanciato dalla finestra il Crocefisso dalla stanza dell'ospedale dov' era ricoverata la madre con altri 3 pazienti.

La presenza all'udienza ha impedito al sig. Smith di partecipare al pellegrinaggio alla Mecca dove sono morti 345 pellegrini.

Una ragione in più per dire:NO ALLA TURCHIA IN EUROPA !

Da ieri il criminale attentatore alla vita del Santo Padre Giovanni Paolo II Magno, Mehmet Alì Agca , è libero. Anzi, è uccel di bosco,perchè subito dopo la liberazione è salito su una Mercedes insieme al fratello ed all' avvocato ed è diventato irreperibile. Questo nonostante gli altri anni di galera che gli restavano da scontare.

Ricordo che Agca era stato graziato della pena dell'ergastolo il 13 Giugno 2000 da Carlo Azelio Ciampi per la Legge Italiana e amnistiato grazie ad un provvedimento del 18 Luglio 2001 del Tribunale Costituzionale Turco per la Legge di Ankara.

Ora gli resta da fare il servizio militare turco: perchè non in qualche manovra congiunta della NATO in Italia o magari a presidiare Piazza San Pietro ?

Ed in Italia c'è ancora chi invoca a gran voce Grazia, Amnistia ed Indulto !

mercoledì 11 gennaio 2006

Come morivano gli Italiani: Milite Scelto Giuseppe Zanelli.

Il triste filmato di questi giorni che ripropone la morte da Vero Eroe di Fabrizio Quattrocchi riporta alla memoria come morivano certi Eroi Italiani oggi dimenticati;come Giuseppe Zanelli.

Nato a Mortizza (Pc) il 20/09/1918.
Dopo aver preso parte alle operazioni militari sul Fronte Occidentale,l' 8 Settembre aderì alla RSI e venne assegnato al 630 Comando Provinciale della G.N.R. .
Fu catturato da partigiani a Folignano di Ponte dell'Olio (Pc) e condotto con insulti e percosse a Bettola. Qui gli fu ordinato di gridare "W Stalin", ma egli gridò "Evviva il Duce !"; gli venne imposto di cantare " Bandiera Rossa", ma intonò "Battaglioni M".
Condannato alla Pena Capitale, i partigiani gli chiesero l'ultimo desiderio; e poichè era appassionato di lirica ed aveva una bella voce da tenore, chiese di cantare un pezzo dalla "Tosca" .
Sereno, attaccò: " E lucean le stelle...ed olezzava la terra...e muoio disperato !"
La piccola folla radunata sulla collina di Bettola, vicino al cimitero, si commosse fino alle lacrime ed agli applausi.
Il partigiano che comandava il plotone d'esecuzione non si commosse ed ordinò allo Zanelli di scavarsi la fossa. Poi una scarica ed il silenzio.
Era il 20 Agosto 1944, la salma riposa oggi nel Cimitero di San Giovanni di Bettola (Pc).

martedì 10 gennaio 2006

Fabrizio Quattrocchi, Eroe per sempre.


Non posso fare a meno di postare il bellissimo commento dell'amico Jet-Set dal Blog comune "Il Castello":


  • A Bin Laden, ad Al-Zarquawi, alla cricca estremista che insozza il nome di Allah con i propri laidi proclami: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai terroristi di tutto il mondo, di qualunque parte politica, fogna umana da sterminare come un branco di ratti: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A Prodi, Fassino, Bertinotti, Cossutta, Pecoraro ed agli altri "leaders" di sinistra: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai noglobal in piazza a bivaccare nullafacendo, pronti a distruggere città ed a prendersela con le forze dell'ordine: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Agli animali che lo hanno definito a suo tempo "mercenario": vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A tutti i bastardi che hanno gridato Dieci Cento Mille Nassirya: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A tutti i falsi italiani che attaccano alle loro finestre quella vergognosa bandiera della pace: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai moralisti accademici che parlano di ritiro quando c'é una guerra da combattere: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai magistrati che s'inerpicano sul crinale della differenza tra terroristi e combattenti: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A tutti i paraculi che vanno dove il vento politico tira: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Alla Sgrena ed alle due Simone: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai giornalisti lecchini della falce e martello, dimentichi che in un paese rosso invece di scrivere zapperebbero la terra: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A tutti coloro che alle prossime elezioni condanneranno altri popoli al giogo votando a sinistra: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A Jovannotti, Ligabue e Pelù che si sono guardati bene dal dedicare alle vittime del terrorismo una canzone analoga a quello schifo di "Il mio nome è mai più": vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A Celentano, che nei suoi "spettacoli" biascica parole senza sapere cosa sta dicendo: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai cantanti, agli attori, agli pseudointellettuali pieni di soldi e con la pancia piena che disquisiscono della povertà nel mondo: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • Ai francesi ed ai tedeschi, pacifisti a parole che invece vendono tecnologia nucleare ed armi depredando come cavallette i paesi in cui sono insediati: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A Zapatero ed a tutti i conigli che sono scappati quando c'era bisogno di loro: vi faccio vedere come muore un italiano.
  • A chi si rifugia nella calda coperta del "non so" e del "non voglio guardare": vi faccio vedere come muore un italiano.
E' anche a causa di questi personaggi che è morto un italiano ma è nei nostri cuori egli risorge con forza e con dignità.

Ciao Fabrizio, fratello mio: tu sei l'eroe che alberga nel mio cuore.
Di Jet- Set.

giovedì 5 gennaio 2006

Discorso di Mantovano

A conclusione delle Festività Natalizie, per una riflessione sull'Identità Cristiana,Italiana ed Europea, propongo questo scritto:

Intervento di Alfredo Mantovano al convegno:

«Il dovere dell’identità»

organizzato dalla Fondazione Magna Carta.

Roma 17 dicembre 2005

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Quando si parla di identità, vengono in considerazione un profilo individuale e un profilo comunitario, tra loro strettamente collegati. L’analogia fra il corpo umano e il corpo sociale non è nuova: la società può essere facilmente descritta come un uomo in grande.

Sul piano individuale, ciascun uomo è chiamato a perfezionare sé stesso operando nella realtà sulla base di un determinato codice di comportamento. Questo codice è uguale per tutti, ma ciascun uomo vive il suo percorso in modo personale e unico: e in ciò manifesta la sua particolare identità. La mia identità, come quella di ciascuno di voi, deriva da fattori biologici, storici, culturali e mi configura singolarmente come un essere unico e irripetibile.

Lo stesso vale per le comunità. Ogni società deve avere come orizzonte il bene comune, ma ognuna lo persegue secondo dinamiche proprie ed inimitabili.

Qual è l’identità italiana? L'Italia esiste da quasi un millennio come unità culturale e linguistica, sulla base di una eredità romana maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi. Questa straordinaria varietà, così densa di particolarismi, ha sempre avuto, e ha tuttora, un collante, che va riconosciuto nella sua oggettività (a prescindere dalla confessione religiosa di chi opera il riconoscimento): e il collante è costituito dal fatto che in Italia c’è Roma e a Roma c’è il Vicario di Cristo.

In Italia l’eredità greca e l’eredità romana, grazie all'opera di San Benedetto, dei suoi monaci e di chi ha proseguito il loro lavoro, si sono fuse e hanno dato luogo all'autentico spirito europeo. Tutta la storia e tutta la cultura italiana sono impregnate di cristianesimo e sono intimamente intrecciate col cammino della Chiesa; per lo meno da quando un signore che si chiamava Pietro, intrapresa la via Appia per fuggire da Roma, fu fermato e si sentì dire: ma dove stai andando? Il tuo posto è lì, torna indietro!

Quest’intreccio si legge nelle opere d’arte che riempiono ogni angolo della nostra terra, lo si vive, magari inconsapevolmente, nelle tradizioni, negli usi, nelle consuetudini…

Questa nostra identità somiglia a un grande affresco, bello, ricco, pieno di particolari interessanti, in cui spiccano tre colli: quelli sui quali si fonda la nostra civiltà e la civiltà europea. I tre colli sono il Golgota, il Partenone e il Campidoglio. Gerusalemme, con la fede nel Dio unico; Atene, con la filosofia dell’essere; Roma, col suo diritto radicato nella realtà. Quest’affresco ha patito nel corso dei secoli – soprattutto negli ultimi due secoli - una serie di attacchi, dall’esterno e dall’interno. L’affresco si è deteriorato con il tempo, è stato in parte coperto da pitture posticce che ne hanno deturpato la bellezza. Ma in un giorno abbastanza vicino a noi ci si è resi conto che quest’affresco meritava un restauro e un rilancio: il giorno in questione è l’11 settembre 2001.

Fino alle 3 del pomeriggio dell’11 settembre 2001 sembrava che del dibattito attorno all’identità dovessero interessarsi solo gli addetti ai lavori. L’11 settembre ha fatto da spartiacque, ci ha fatto cogliere che cosa era in gioco. Ma c’è un 11 settembre italiano, e cioè il 12 novembre 2003, che ci ha fatto capire che la posta in gioco attraversa anche la nostra carne e il nostro sangue di italiani.

Davanti ai corpi dei nostri Caduti a Nassiriya, il Vicario del Papa a Roma ha pronunciato parole chiare, nelle quali ci siamo riconosciuti tutti, anche in questo caso a prescindere dalla confessione religiosa di appartenenza, e a prescindere dall’appartenenza a una confessione religiosa. Ha detto, in sintesi: a) che la tragedia di Nassiriya ha fatto sorgere “dal cuore del nostro popolo” “la sua profonda unità e la consapevolezza del suo comune destino”; b) che la “nostra amata Patria” continua a impegnarsi in “grandi e nobili missioni”, e a ritrovare al proprio interno generosità ed energie da spendere per esse; c) che l’Italia riceve una eredità importante, suggellata dal sangue dei suoi stessi figli, e che di questa eredità come italiani tutti dobbiamo confermaci degni; d) che uno dei modi per esserne degni è combattere il terrorismo.

Dall’11 settembre 2001 e dal 12 novembre 2003 il tema della nostra identità ha iniziato a tenere banco anche sulle colonne della carta stampata. Abbiamo avuto un sussulto, che ci ha indotto a considerare con maggiore attenzione le nostre radici. Abbiamo cominciato a capire che un nemico così determinato e così pericoloso come il terrorismo di matrice islamica non lo si combatte, né tanto meno lo si vince, se non si è forti di una identità solida e reale, e soprattutto viva. E non c’è solo il terrorismo: penso, per fare un esempio fra i tanti, alla possibilità che il “film” visto nelle banlieues parigine e francesi sia replicato in casa nostra. In Francia esistono ghetti etnicamente o religiosamente omogenei con maggioranza di disoccupati, che come tali rappresentano materiale esplosivo; ma, fra tante etnie e religioni, ci sarà pure una ragione per la quale esplodono solo i ghetti musulmani: perché solo in essi esiste il detonatore rappresentato da imam e organizzazioni ultrafondamentalisti.

Ma l’identità non è soltanto qualcosa da riscoprire, a causa di uno scossone storico che ci ha svegliato dal nostro torpore; e non è soltanto qualcosa da tutelare, come ciascuno di noi prova a fare con la propria abitazione, quanto installa il sistema d’allarme o la porta blindata. Il dovere dell’identità impone di non giocare solo in difesa, di non elaborarla soltanto “in negativo”, ma di formulare delle proposte, di ragionare “in positivo”.

Sono 4, a mio avviso, i cardini sui quali lavorare, le ruote motrici che consentono all’identità di avere una stabilità e di andare avanti. Sono fra loro strettamente correlati: la difesa della vita, la tutela della famiglia, la libertà di educazione e la libertà dal terrorismo. Nel mio intervento vorrei soffermarmi per cenni sul legame che esiste fra queste ruote motrici.

Il diritto alla vita merita rispetto sempre, qualunque sia l’età e la condizione della vita: è il presupposti di tutti gli altri beni e di tutti gli altri diritti. E’ l’antidoto più autentico rispetto a ogni tentazione totalitaria, per una logica elementare: se si accetta di principio che un essere umano sia soppresso perché troppo piccolo (ha pochi mesi o poche settimane di vita rispetto al concepimento), e quindi perché ha un “deficit di tempo”, non vi è nessuna ragione di principio per non sopprimerlo quando è troppo anziano, e quindi ha un “deficit di energia”: non è un caso se alla rivendicazione del “diritto di aborto”, che si è riascoltata in questi giorni, si affianca la rivendicazione del “diritto di morire”, per riprendere il titolo di un libro che comincia ad avere successo e diffusione. Seguendo l’identica logica, non vi è alcuna ragione di principio per sopprimere un essere umano che ha un “deficit di capacità”, cioè è portatore di handicap. E se si accetta di principio che un essere umano possa essere manipolato perché è piccolo, e non se ne accorge nessuno – e per questo può essere utilizzato come insieme di pezzi di ricambio per altri – non vi è nessuna ragione di principio per curarlo quando è anziano: non si sprecano soldi per una macchina vecchia, la si dà alla rottamazione (versione meccanica dell’eutanasia)… Ma questa è la descrizione di uno stato totalitario, nel quale l’uomo viene ridotto a strumento: questo stato è totalitario anche se si vota e se c’è una formale democrazia.

Difendere la famiglia come è descritta dalla ns. Costituzione – “società naturale fondata sul matrimonio” – non è una battaglia di retroguardia: una famiglia solida garantisce la trasmissione ai figli di una identità chiara. Una famiglia solida è in grado di svolgere la sua funzione educativa; è in grado di esercitare il diritto a una libera scelta di istruzione e di formazione; è in condizione di dire alla scuola alla quale ha iscritto i propri figli: pretendo per i miei figli il rispetto dell’identità italiana; pretendo che forniate loro spirito critico, che non gli imponiate pseudo verità filosofiche o storiche a senso unico, che nelle aule resti il crocifisso e non sia sostituito dal distributore automatico di preservativi.

C’è chi ha colto opportunamente un link fra la difesa della vita, dal concepimento fino al termine naturale, e la determinazione nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Non che chi la pensa diversamente, sia disinteressato al rischio di trovarsi il kamikaze tra i banchi di un mercato o nel bar o sull’autobus; vi è però una minore disponibilità a un contrasto più articolato, anche culturale. Chi è contrario ad aborto ed eutanasia è convinto che esistano delle verità sulla vita umana e sulla sua dignità sulle quali non si può trattare. Parallelamente, i cittadini più attenti alla sfida terroristica ritengono che la vita umana debba essere difesa in ogni modo possibile e senza compromessi. Il desiderio di difendere la vita dalla minaccia del terrore si salda col desiderio di tutelare la vita da un altro tipo di pericolo.

Accogliere la vita, a qualsiasi stadio dell’esistenza, ha dei costi personali e impone dei sacrifici. Combattere fino in fondo il terrorismo ha dei costi personali e impone dei sacrifici. Non essere disponibili a pagare i costi e a sostenere i sacrifici connessi alla tutela della vita delle persone più indifese rende più deboli e più arrendevoli nella lotta al terrorismo. Vale anche la prova contraria: la vittoria della sinistra in Spagna, dopo una campagna elettorale che ha visto la partecipazione attiva dei terroristi, è stata seguita sia dalla rapida successione di leggi contrarie al diritto alla vita e alla famiglia, sia dal ritiro dei soldati spagnoli da un fronte importante nella lotta al terrorismo. E non è un caso se la sinistra italiana prospetta contestualmente, nell’ipotesi di vittoria alle prossime politiche, il ritiro del nostro contingente dall’Iraq e l’introduzione dei pacs…

Noi italiani, in modo talora implicito, talora confuso, abbiamo mostrato di cogliere questo collegamento: quando, nei giorni successivi al 12 novembre 2003, davanti all’Altare della Patria ci siamo messi in fila per ore, senza essere spinti da nessuno, per rendere omaggio ai nostri Caduti, abbiamo sottolineato la concreta vicinanza dell’intera nazione alla sventura che aveva colpito i propri figli, ma abbiamo sottolineato anche la partecipazione alla ragione ultima del sacrificio. E il 13 giugno di quest’anno abbiamo dato la risposta nota all’appello dei referendari.

La vittoria sul terrorismo è collegata alle vittorie del fronte pro-life: si sorreggono a vicenda. L’energia che può liberare una battaglia per la vita seria, ragionata, non superficiale, non urlata, è un capitale da spendere per la difesa della nostra pace minacciata dal terrorismo di matrice islamica.

Un corpo sociale distratto e svogliato sulla difesa della vita innocente non può trovare in sé le energie per affrontare gli anni, se non i decenni, di sacrifici che richiede una guerra di lungo periodo contro il terrorismo. Una classe dirigente non può essere distratta e svogliata su questi fonti. Non lo è in questo momento la classe dirigente degli USA. Non può esserlo in Italia, in particolare, la classe dirigente di centrodestra. Che non può ignorare, né può facilmente archiviare, fatti straordinari come ciò che è accaduto il 13 giugno di quest'anno: quel giorno il fronte libertario e relativista ha subito un trauma.

Quel giorno i resti di quello che era uno dei più potenti eserciti mediatici del mondo, che si era schierato in forze per far capitolare la legge sulla fecondazione artificiale, hanno risalito in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza: firmato non Diaz ma popolo italiano. Il trauma per i laicisti sta in quella quota 75 di non voto al referendum. Dopo qualche settimana di sbandamento, la terapia per riaversi è stata individuata in una sorta di rivincita, che passa contemporaneamente dalla negazione o dalla limitazione di diritti naturali e da manifestazioni apertamente antireligiose. Si spiega così la moltiplicazione di proposte che ci martellano dalla fine dell’estate: dai pacs alla RU 486 fino al rilancio dell’eutanasia. Ma si spiega anche l’aumento di decibel contro l’ingerenza della Chiesa nelle questioni temporali e il grido in difesa della laicità dello Stato.

Questi attacchi hanno singoli obiettivi immediati, ma finiscono per incrinare le basi della nostra identità. Lo dico anzitutto ai miei amici e colleghi di partito e di coalizione. E’ evidente che su temi così delicati è illusorio puntare all’unanimità; e ci mancherebbe altro qualcuno negasse la libertà di coscienza. Ma il problema è capire se un partito politico, o uno schieramento nel suo insieme, debbano rinunciare a pronunciare parole chiare, e ad assumere le responsabilità conseguenti, su questioni di tale peso per la vita di ciascuno di noi.

E anche se, come ci viene spesso ricordato, la coscienza è l’ultima istanza di giudizio, giova completare il quadro e far presente che ogni giudizio consiste nel porre a confronto un fatto concreto con una regola chiamata a valutarlo: da mihi factum, dabo tibi jus. Il tribunale della coscienza svincolato da una legge da applicare non produce giudizio ma arbitrio. Neanche la coscienza è svincolata da quelle regole essenziali, che chiamiamo diritto naturale, il cui rispetto integrale assicura l’esatta considerazione dei diritti di tutti. Questo è tanto più importante in un regime democratico, perché – come ha insegnato Giovanni Paolo II e come insegna Benedetto XVI - se la democrazia si disancora dal diritto naturale si trasforma in tirannia del relativismo e conduce alla perdita della propria identità.

Piaccia o meno, le decisioni connesse a questi temi non costituiscono un problema da rimuovere, o da nascondere sotto la coltre della coscienza. Rappresentano una opportunità per riattivare la stessa politica, quella con la p maiuscola; ma anche per dare slancio e forza a uno schieramento politico; e quindi per ritrovare quell’animo grande che permette di superare ogni possibile divisione. Chi ha dimestichezza con gli scritti di Antonio Gramsci (un soggetto che ha dato un contributo importante alla lotta contro l’identità italiana) sa quanto il fondatore del Pci studiava in modo scientifico le fratture delle realtà che percepiva come ostili, e ne sfruttava ogni minima crepa.

Dovremmo essere così intelligenti da evitare che gli agenti del relativismo possano fare altrettanto con noi. Il dovere dell’identità impone il dovere di una unità effettiva attorno ai principi che connotano l’identità e una solidarietà di testa e di cuore fra coloro che la perseguono.

Ho sempre in mente i versi di un pastore protestante, Martin Niemoller, tanto più toccanti in quanto chi li ha scritto è morto nel campo di sterminio di Dachau: “Prima vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero per i comunisti, e io non dissi nulla perché non ero comunista. Poi vennero per i sindacalisti, e io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”. Noi oggi ci ritroviamo qui perché possiamo, e quindi dobbiamo, dire qualcosa.

E se c’è stato chi ha pensato di sintetizzare in uno slogan, che è diventato un film – “W Zapatero” -, tutto ciò che si può fare di più ostile e di più dannoso per la nostra identità, non credo che sorgano incidenti diplomatici se, capovolgendo il medesimo slogan, e quindi volendo voler fare un riferimento simbolico, senza nulla di personale, concludo dicendo che noi siamo qui per dire chiaro e forte “Abbasso Zapatero”.

Che la Provvidenza ci aiuti!

Concordo: ABBASSO Zapatero !