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venerdì 29 dicembre 2006

La Feccia di Robinik, parte terza.

Si è spento ieri mattina nella sua casa di Tivoli, lo scrittore Carlo Mazzantini. Era nato a Roma nel 1925. Redattore dell' Enciclopedia Treccani, fu autore di numerosi libri di successo, da "A cercar la bella morte" a "Ognuno ha tanta storia; da "I Balilla andarono a Salò" fino a "L'ultimo Repubblichino". Per anni ebbe difficoltà a far pubblicare i propri scritti; perchè raccontava la Storia dalla parte dei Fascisti. Sicuramente piazzandosi tra la cosiddetta "Feccia" di Robinik e neo-antifascisti di corredo. Come per Buttafuoco, ci fu scandalo per la sua partecipazione al Premio Campiello.

Anche Mazzantini, nonostante i notevoli successi di critica e pubblico, non ebbe il riconoscimento del premio veneziano. Così, quasi per dargli un contentino, fu assegnato lo Strega ed il Grinzane Cavour a sua figlia Margaret, per il libro "Non ti muovere".

Vorrei ricordarlo per come seppe dire scomode verità sul 25 Aprile, celebrato come una festa da una parte di italiani i quali, scaricando sui Fascisti tutte le colpe del "Male Assoluto", si sentirono liberati dal peso di aver in realtà dato il consenso, come il 99 % della popolazione, al Fascismo. Rimuovendo dalla propria coscenza errori e colpe comuni, scaricandole su chi scelse di restare fedele ad una parola data e di non badogliare. Accompagnando tale rimozione con una mattanza che durò per mesi, tra l'orrore di Piazzale Loreto ed i vari Triangoli della Morte. Consegnando questa stessa rimozione ai propri figli, per i quali, negli anni settanta "la resistenza ce l'ha insegnato: uccidere un Fascista non è reato !".

Come ho fatto nei giorni scorsi parlando di altri esponenti della Feccia, auguro a Robinik, giovanitristi e paperelle altrettanti successi come li ha avuti Mazzantini.

giovedì 28 dicembre 2006

Pannella su Saddam:vada fino in fondo !

Il leader delle Brigate Radicali ha iniziato l'ennesimo sciopero della fame, teso questa volta a salvare la vita a Saddam Hussein.

Non vorrei tanto entrare nel merito della condanna; sono favorevole alla pena di morte, nel caso di efferati ed accertati delitti. Nel caso di Saddam ho qualche dubbio, e cioè se non fosse meglio tenerlo in vita non per motivi umanitari, ma per sapere qualcosa in più sul suo regime e sulle attuali formazioni terroristiche a lui legate. Ho l'esperienza della condanna a morte di Ceausescu, troppo furbescamente fatto sparire per tenere celati molti segreti di coloro che cavalcarono la Rivoluzione del 1989 con un colpo di stato che culminò con i fatti della Piazza dell' Università dell'anno dopo, fatti dimenticati in fretta in Occidente, e che, spazzando via gli studenti anticomunisti rumeni, favorirono il consolidamento del neo-comunista Ion Iliescu.

E comunque, dissento ampiamente sulla forca:per il rispetto dovuto ad un militare nemico, trovo giusto che se il popolo irakeno ha deciso per la pena capitale, è la fucilazione la pena da applicare.

Ma, ripeto, non di questo voglio occuparmi, ma di Pannella. E' il suo comportamento che mi lascia sconcertato: ora teso a salvare un criminale, mentre per Welby voleva l' omicidio di stato. Così come é nota la sua posizione e dei radicali su aborto, l'eutanasia, gli embrioni sfruttati, la droga assassina ed i PACS tesi ad estinguere l'umanità.

E soprattutto il fatto che sono anni che il Giacinto (questo il suo vero nome) imperversa con scioperi e scioperette di fame e sete, naturalmente seguitissimo dai media. Anni che vediamo affievolirsi la voce del capo, non certo per le sigarette che fuma, ma per la sua precaria condizione di salute dovuta a queste esibizioni. Ma, ZAC, arrivato ad un passo dalla fine, ecco l' angelo laico arriva a salvarlo in extremis.

A questo punto, poichè non credo che le autorità irakene cambino idea, consiglierei a Giacinto di andare fino in fondo, ed in nome della coerenza per la quale Non bisogna toccare Caino (mentre il povero Abele giace e si da' pace...), SI LASCI MORIRE, assistito dai suoi compagni di partito e dalle varie associazioni di lucacoscioni vari, sedato magari dal Dott. Riccio, per assistere ad un altro funerale laico. Avendo la coerenza di Bobby Sands e degli altri martiri di Maze.

Ma l' Allodola (così noi simpatizzanti della causa Irlandese amiamo chiamarlo), nonostante 66 giorni di sciopero della fame, fino all'ultimo espresse la volontà di NON voler morire; e così ebbe un bel funerale Cattolico e sulla sua tomba svetta una Croce Celtica,simbolo di fede (alla faccia di certe leggi liberticide italiane, che vorrebbero criminalizzarla...). Mentre siamo certi che il capo delle Brigate Radicali, teso a liberare l' Italia dal giogo clericofascista, preferirà alla fine rinunciare, tra gli applausi dei liberal/libertari di ogni colore, quelli di Sergio D'Elia, che di lotta armata se ne intende e dei vari neoantifascisti ed antipapisti che vorrebbero ridurre al silenzio quelli che sono troppo politicamente non allineati al buonismo trasversale, e che considerano FECCIA.

PENSACI, GIACINTO !!!

mercoledì 27 dicembre 2006

La Feccia di Robinik, parte seconda.

Paperinik, pardòn, Robinik, insieme ai giovanitristi ed alle paperelle, oltre ad avercela coi Fascisti, è notoriamente un antiomofobo. Così, se qualcuno si schiera critico verso i PACS e verso le richieste sempre più estreme degli omosessuali, ZAC !, fa cadere mannaia, scure e ghigliottina sul malcapitato che non si sente di barattare la Destra ed i suoi Valori in cambio di qualche pugno di voti dei seguaci di Cecchi Paone.

Così, come non pensare, dopo Buttafuoco, a Marcello Veneziani ?Laureato in Filosofia, ha iniziato come giornalista nella redazione barese de Il Tempo, successivamente è passato al Giornale d’Italia, ha diretto e fondato case editrici e riviste culturali e politiche (Intervento, Pagine Libere, L'Italia settimanale, Lo Stato), è stato editorialista de Il Giornale, di Libero e de Il Messaggero, e membro del Consiglio di Amministrazione della RAI.
Per essere considerato "Feccia" da Robinik, il povero Veneziani le ha proprio tutte: non solo, pur non arrivando a definirsi Fascista come Buttafuoco, è notoriamente definito Fascista da molti avversari politici, che più volte hanno cercato di farlo tacere, anche con minacce; ma ultimamente ha dedicato parecchi suoi articoli su "Libero" a denunciare le estremizzazioni che la lobby omosessuale porta avanti, spalleggiata e coccolata dalla sinistra, ma anche da certi benpensanti neo-antifascisti che pensano di potersi dire di Destra. Per esempio, vedasi l'articolo "Gay,immigrati e delinquenti. Caro Prodi quando aiuti anche me ?":

"I delinquenti escono, i clandestini entrano, i loro parenti pure. Indulto, sanatoria, cittadinanza facile, ricongiungimento dei familiari. Gli italiani comuni e a norma di legge, pagano il conto. È il bilancio del primo trimestre di centro-sinistra, alla pausa vacanze dopo sette voti di fiducia. L'Italia riprende a girare, dice Prodi; se si riferisce ai testicoli dei suoi abitanti ha pienamente ragione. Non so se ha commissionato a Nomisma uno studio scientifico per peggiorare la vita degli italiani, ma ci sta riuscendo con una rapidità impressionante. Se hai commesso un reato, se sei entrato in Italia clandestinamente, se sei extracomunitario, se sei zingaro, se sei gay, se sei tossico, se vuoi forzare la legge naturale e penale, allora sei specie protetta. Se vuoi abortire ti va bene, la legge e la simpatia sono dalla parte tua; per le nascite, invece, sono favorite solo quelle illegali: se nasci abusivamente in Italia, sei premiato con la cittadinanza ad honorem, automatica. Infatti, basta nascere sul territorio italiano per acquisire la piena cittadinanza italiana, anche se sei figlio di esquimesi clandestini o solo di passaggio. Se paghi le tasse e sei in regola, invece, sarai sorvegliato speciale. Da questo quadro cosa se ne deduce? Che il nemico ideologico del governo Prodi è il quartetto tipico di padre-madre-figlio-figlia. La famiglia tipo è la bestia da annientare, con l'aggravante se il padre è farmacista, avvocato, notaio, tassista, panettiere, commerciante o professionista con partita Iva.".

Per non parlare di quello odierno su "Libero", "Omunisti al potere, la novità dell'anno che va":

"Il 2006 sarà ricordato come l'anno della svolta copernicana della sinistra italiana: i comunisti diventarono omunisti. Chi sono gli omunisti? Sono gli ideologi e i militanti dell'omosessualità come Valore Politico, Rivoluzione sociale, Lotta di classe fondata sugli ormoni. La sinistra combatte ormai solo per i diritti dell'Omo e suoi derivati. Da qui la definizione di omunisti, che non è la versione toscana del comunismo, visto che i toscani aspirano la c; ma la versione ideologica dell'omosessualità, definita appunto omunismo, come tutti gli ismi che affollano il teatrino delle ideologie.

Sull'omosessualità nulla da dire, è un orientamento innato o acquisito di una minoranza, è un'inclinazione; non disprezzo e condanno nessuno per questo, fatti loro e rispetto per tutti. Ma l'omunismo no, è la versione pubblica e ideologica dell'omosessualità, la teoria che legittima l'esibizione dell'omosessualità, l'orgoglio gay, e pretende di equiparare le coppie omosessuali alle famiglie, ritenendo irrilevanti i figli. La nuova bandiera dell'omunismo è felce e martello. Per chi non lo sapesse, la felce è una pianta bisex, in versione femminile e maschile, ma sterile, cioè senza fiori né frutti, che serve da base per una delicata linea di saponi, talco e cipria. Le diseguaglianze sociali, i poveri, i proletari - che come dice il nome avevano prole a carico - interessano ormai poco e nulla alla sinistra. Il tema principale è invece l'omanesimo, la battaglia per istituire i Pacs per le coppie omosessua li, la festività del Gay pride, la fiorente letteratura omosessuale che conquista i banchi delle librerie, dove ci sono persino collane dedicate ai "classici dell'omosessualità", la scoperta gioiosa che l'omosessualità è diffusa pure tra gli animali, dunque è secondo natura; le pari, anzi maggiori, opportunità agli omosessuali, l'uso delle icone del masculo siculo, erotomane, come Lando Buzzanca, o del maiale allupato da commedia sexy, come Lino Banfi, per propagandare la gioia e la norma di avere un figlio o una figlia gay; la presenza potente di una lobby omosessuale e trasversale, la rilevanza pubblica, anzi istituzionale, di testimonial come Grillini, Luxuria, Vendola; l'apoteosi televisiva di coppie omosex come Dolce & Gabbana. Non c'è programma politico, televisivo, scolastico o universitario che non si doti del suo omosex da passeggio. E ogni outing omo, ogni confessione aperta di aver praticato omosessualità, fa guadagnare punti nella classifica degli arrampicatori. Mi attendo che anche su questo Fini faccia outing , come per lo spinello, la kippah e la moto senza casco: «Una volta ci ho provato anch'io con un collega di governo. Che avete capito, era un rude leghista». Da Mussolini a Malgioglio. Vista l'impossibilità di mantenere la promessa di una rivoluzione sociale, visto l'esempio del socialismo di Zapatero che riversa sulla famiglia quel che non può più promettere in fabbrica, la sinistra si è tagliata la c, che i triviali leggeranno al maschile o al plurale, alludendo agli organi sessuali evirati, e si è buttata sulla battaglia per la santificazione dell'omosessualità. I filosofi diranno invece che la c cassata al comunismo è stata recuperata altrove, passando dall'astrazione alla castrazione. Prima sognavano le astrazioni dell'ideologia, poi, caduto il comunismo, si sono castrati; il rosso è sfumato nel rosa e allora è spuntata la passione civile per l'omosessualità. Non si tratta di una battuta da caserma, ma di una teoria vera e propria: Schopenhauer sosteneva che l'amore, l'attrazione dei sessi era un'astuzia della specie che si serviva degli impulsi sessuali e sentimentali per riprodursi e così perpetuarsi. Oggi la specie ha deciso di estinguersi, o perlomeno di suicidarsi in Occidente, e ha propagato il valore dell'omosessualità per impedire il riprodursi e il perpetuarsi dell'umanità. L'omosessualità come eutanasia della specie. Un segno di stanchezza e di rigetto della vita che assume le fattezze, sgargianti o raffinate, del mondo gay. L'obiettivo è una società in cui saremo tutti omo, prefisso greco che sta per uguali; ma l'eguaglianza a cui si allude oggi non è più quella delle condizioni economiche e sociali del vecchio comunismo, ma sessuali e ormonali. Da qui la svolta copernicana della sinistra italiana (già prevedo il commento acuto del filosofo Giulio Giorello: che comico, Veneziani confonde la rivoluzione omosessuale con la rivoluzione astrologica, sostiene che Copernico era gay).

Come sapete, un articolo del genere provoca la scomunica con l'accusa di omofobia e successivamente l'accusa di omosessualità repressa, con l'implicita condanna ai favori forzati nei confronti di omosessuali praticanti, se si vuole estinguere il reato. Ma vi assicuro che non ho un filo di omofobia, non mi spaventano le inclinazioni omosessuali, amo alcuni grandi scrittori omosessuali come Pasolini, Mishima, la Yourcenar e Montherlant e non ho la minima prevenzione verso gli omosessuali in alcun campo; mi sono simpatici e antipatici esattamente come gli altri. L'omosessualità non modifica di un filo, nel bene e nel male, il giudizio che ho di loro. Vorrei solo che le loro scelte restassero nell'ambito privato e non fossero consegnate agli omunisti per farne una bandiera di riscatto ideologico e un modello di riferimento pubblico. Ompagni, avete perso la testa.".

Decisamente questi due articoli bastano ed avanzano per dare la patente di "Feccia" anche a Veneziani. Il quale, peraltro, vanta un curriculum professionale di grande rispetto, ed oltre gli incarichi di cui sopra, ha pubblicato diversi libri che si sono mostrati successi letterari, ricevendo parecchi riconoscimenti, come il Premio Fregene 2004 (Saggistica).

Come nel precedente post, auguriamo a Paperinik, giovanitristi e paperelle altrettanti successi...

martedì 26 dicembre 2006

26 Dicembre 1946:IL DOMANI APPARTIENE A NOI !

Sessant'anni fa nasceva il Movimento Sociale Italiano. Nessun partito in Italia potrà ridarmi l'orgoglio di essere appartenuto a quel branco di pazzi ed inguaribili romantici che non accettarono l'idea del tradimento del 25 Luglio e dell' 8 Settembre, e della sconfitta conseguenziale del 25 Aprile. Ma soprattutto innamorati di un' idea che fu definita dal Suo Creatore, Benito Mussolini, la più rivoluzionaria del XX Secolo, tesa a superare Capitalismo e Comunismo ed a cercare la concordia ed il dialogo tra le parti sociali, piuttosto che lo scontro classista.

Il 26 Dicenbre del 1946, nello studio romano di Arturo Michelini, Giorgio Almirante (nell'immagine un manifesto che esalta l'onestà del MSI), Pino Romualdi, Roberto Mieville, Giorgio Pini, Biagio Pace, Francesco Galante, Gian Luigi Gatti, Nicola Foschini, Giovanni Tonelli, Cesco Giulio Baghino e naturalmente Arturo Michelini, diedero vita a questo partito che ancora mi fa sentire giovane e voglioso di lottare nel pieno rispetto degli ideali dei fondatori; ideali che ancora oggi sono attuali, così come lo saranno domani. Ideali ben descritti in questo manifesto del Fronte della Gioventù: TRADIZIONE, UNITA' , IDENTITA' NAZIONALE, EUROPA. Manifesto dove la famosa immagine dei Marines americani dimostra la volontà di pacificazione vera, non quel falso pacifintismo che ha sempre caratterizzato l' Italia dell' arco costituzionale, dove i nemici di ieri vengono accettati come amici di oggi, pur avendo sempre in mente la Nostra Identità.

Identità che si può riassumere rievocando le parole di Giorgio Almirante nella relazione alla Direzione Nazionale il 25-26 Luglio 1970,dopo il clamoroso successo elettorale alle Regionali:

"...un partito non classista, quale il nostro ha l'onore di essere e proclamarsi, non può sollecitare nell'elettorato spinte di classe; cioè non può identificarsi con il ceto borghese o con il ceto proletario...". Parole attualissime, come si vede, in un Italia dove la sinistra sia con l' ultima campagna elettorale, sia con l'attuale Legge Finanziaria spinge per lo scontro sociale.

Identità e Valori ribaditi nella stessa Relazione:

"La gente viene con noi per trovare o RITROVARE qualche cosa: una garanzia, un retaggio, una bandiera, una disciplina, una moralità; un modulo di Civiltà; qualche cosa di ANTICO e di NUOVO, qualche cosa di diverso. Il grande tema dell' alternativa di sistema ci rende credibili da parte di un popolo che vuole autorità e libertà, ordine e giustizia, pulizia e pace civile".

Relazione attualissima, a dimostrazione della lungimiranza di Almirante:

"Durante la campagna elettorale abbiamo osservato che la lotta politica in Italia si era radicalizzata... Chi non lo ha capito prima delle ELEZIONI, lo ha capito SUBITO DOPO, quando il centrosinistra, facendo cadere ogni delimitazione nei confronti dei comunisti, ha inserito la sovversione nello Stato, il caos nella società, il disordine MORALE e POLITICO all'interno della stessa coalizione di governo...". Sembrano parole scritte oggi.

Così come incredibilmente contemporanee, che dovrebbero far riflettere tanti cari neo-antifascisti, casinisti ed un tantino follini, orfani dalle vedove radicali e giovanitristi paperellanti, risultano essere queste:

"La battaglia non si vince e non si conduce SENZA di NOI; ma da soli non la possiamo condurre e tantomeno vincere. Ciò NON SIGNIFICA che dobbiamo andare alla ricerca di compromessi e di patteggiamenti. Essere NOI STESSI significa incontrare gli altri sulla buona strada.".

Queste idee affascinarono molti giovani, come me ed altri, che non si riconoscevano allora nella cultura dell' odio della sinistra che cullava i loro figliocci di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio e delle SEDICENTI Brigate Rosse. Molti, troppi pagarono con la vita l'impegno di allora; tantissimi ebbero la vita segnata per sempre dalle ferite e dagli agguati. Per loro ed in loro nome, per il ricordo ed il rispetto che devo loro, la mia battaglia per l'unione di TUTTE le Destre, continua e continuerà, nello spirito delle parole che Giorgio Almirante volle lasciarci:

"Noi siamo caduti e ci siamo rialzati parecchie volte. E se l'avversario irride alle nostre cadute, noi confidiamo nella nostra capacità di risollevarci. In altri tempi ci risollevammo per noi stessi. Da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per salutarvi in piedi nel momento del commiato, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla. Accogliete dunque, giovani, questo mio commiato come un ideale passaggio di consegne. E se volete un motto che vi ispiti e vi rafforzi, ricordate: Vivi come se tu dovessi morire subito, Pensa come se tu non dovessi morire mai" .

Perchè:

"Quando vedi la tua verità fiorire sulle labbra del tuo nemico, devi gioire, perché questo è il segno della vittoria !".

lunedì 25 dicembre 2006

BUON NATALE ? A molti, ma non a tutti !

No, quest'anno non mi rivolgo ai comunisti ed ai loro sodali, ma alle nuove B.R. :le Brigate Radicali.

Come le Brigate Rosse volevano colpire lo Stato al Cuore per abbatterlo, le Brigate Radicali hanno iniziato un' offensiva su vastissima scala e su tutti i fronti, dalla droga ai PACS, dalla fecondazione bislacca all' eutanasia, contro la Chiesa Cattolica per abbatterla, nel nome del laicismo più estremo, spesso condito col miele del buonismo di facili costumi.

E così,senza scrupoli di sorta, hanno sfruttato la sofferenza di Piergiorgio Welby per spiegare alla gente quanto loro siano caritatevoli e buoni e quanto la Chiesa di Roma sia spietata e senza perdono.

Per citare un Grande Laico di oggi, Marcello Pera, le Brigate Radicali: - Si dicono liberali, perchè nella loro Neolingua liberale significa "libero di fare come si crede". Non sanno che il liberalismo è dottrina Giudaico-Cristiana fondata sul primato della persona e quindi su principi, valori e proibizioni non negoziabili - . E dunque, pur sapendo le posizioni della Chiesa, peraltro ribadite nel Catechismo (2276-2283), ha voluto portare all' estremo gesto questo pietoso caso che avrebbe dovuto rimanere nel privato e non spiattellato tra un TG ed una pubblicità, come un triste reality di morte.

Le Brigate Radicali,nel loro spietato cinismo vogliono far passare il povero Welby come un nuovo Giordano Bruno (nell'immagine), martirizzato dalla Controriforma di Benedetto XVI; e nel nome di una carità laicista, hanno gridato allo scandalo per i funerali negati. Se almeno leggessero le Sacre Scitture che essi invocano, eviterebbero le solite brutte figure. Il Vangelo è molto chiaro e non ammette false interpolazioni. Esso suona così: a) Gv 20,19-23: “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato,... venne Gesù... e disse: “Pace a voi...” Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”. Dopo... alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". b) Mt 16,18-29: “... E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi dei regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. c) Mt 18,18: “In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo".

Welby, non sappiamo se di propria volontà o convinto da Nuovi Cattivi Maestri,ha manifestato pubblicamente e ripetutamente la volontà di morire, pur essendo a conoscenza dell' esistenza di Cure Palliative, come esposto più volte dal Dott. Casale, uno dei suoi medici curanti, fondatore dell' ANTEA( http://www.anteahospice.org ), un'associazione senza fini di lucro che si occupa di assistenza a malati terminali, che Venerdì a Radio 24 aveva dichiarato, rifiutandosi di dare il suicidio assistito: "A Welby, vedendolo sofferente dal punto di vista spirituale e psicologico ho detto, se vuoi ti posso addormentare'. Per l'oncologo l'unica possibilità è quella di togliere "coscienza ma soprattutto la sofferenza e poi quando sarà il momento, quando le condizioni vitali verranno meno, si staccherà il respiratore, quando ai fini della sopravvivenza non cambia nulla".

Così, davanti a questo ennesimo ripetersi del Peccato di Orgoglio di Adamo ed Eva che diede origine alle sofferenze dell' umanità da parte non del povero Piergiorgio, da parte delle Brigate Radicali, la Chiesa, pur dolorasamente, non ha potuto rimettere il peccato a Welby in terra, appellandosi alla Misericordia del Nostro Creatore per il perdono, come conclude il comunicato del Vicariato di Roma: "Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti.". Conclusione scarsamente riportata dalla stampa e dalle televisioni.

Preghiera alla quale esorto tutti i Cattolici a fare oggi durante la Santa Messa.

Tutto il resto è propaganda politica tesa a a ribadire il concetto laicista e relativista che "La Chiesa NON deve parlare !".

Cosa che mi ricorda troppo il famoso slogan anni '70: "I Fascisti non devono parlare !".

Buon Natale, a molti, ma non alle BRIGATE RADICALI.


Vedasi anche il Link:

http://www.ragionpolitica.it/testo.6992.laicismo_radicale.html

mercoledì 20 dicembre 2006

La Feccia di Robinik.

Robinik, nella sua nuova veste di neo-antifascista, non ha perso l'occasione di definire certa Destra "Feccia" , con la quale lui ed i suoi paperelli giovanitristi non vogliono avere nulla a che fare.

Iniziamo oggi un elenco di questa "Feccia", incominciando da Pietrangelo Buttafuoco.

Pietrangelo Buttafuoco nasce a Catania il 2 settembre 1963. Laurea in filosofia teoretica. Ex libraio ed ex insegnante di liceo, ha iniziato l’attività di giornalista presso diverse testate: il Roma di Napoli, il Secolo d’Italia, l’ Indipendente, il Giornale ed il Foglio, al quale collabora dalla sua fondazione. E' stato direttore dell' Italia Settimanale. E' pure editorialista di Panorama.Ha vinto il Premio Guido Piovene 2000, nel 2005 pubblica "Le uova del Drago", un romanzo tratto da una storia rigorosamente vera accaduta negli anni tra il 1943 e il 1947: e' la storia di una donna-soldato, Eughenia Lenbach, bella, dura ed enigmatica, la spia di Hitler paracadutata in Sicilia e che proprio da lui ha ricevuto la sua missione, nome in codice ''Uova del Drago'', obiettivo preparare focolai di riscossa presso le giovani generazioni in caso di sconfitta del Reich. Il libro è stato definito "libro dell'anno" da parecchi critici, ed è risultato finalista sia al premio Bancarella che Campiello. Che non vince, suscitando notevoli polemiche, soprattutto riguardo la mancata assegnazione de Il Campiello , dove era dato per strafavorito, come afferma Wikipedia: "per motivi politici".

E perchè ? Perchè Buttafuoco non ha problemi a definirsi "Fascista", ponendosi così automaticamente nel campo della "Feccia" così schifata e ghettizzata dai neo-antifascisti, tocquevillani radicaloidi, giovanitristi e paperelli filosalmonelloidi.

Ma forse è bene così, poichè in Italia i premi letterari sono gare assai bislacche, come dimostra l'assegnazione del Premio Viareggio 1975 a Giovanni Marini, ASSASSINO dello studente di Destra Carlo Falvella (Feccia pure Lui, cari neo-antifascisti ?) il 7 Luglio 1972.

Auguriamo ai neoantifascisti,tocquevillani e c. di arrivare a fare almeno il segretario di Buttafuoco o di vendere un decimo delle copie de "Le uova del Drago"...








lunedì 18 dicembre 2006

30 anni fa,l'unica Coppa Davis,nonostante l' Arco Costituzionale...

Oggi 18 Dicembre 1976 la grandissima nazionale di Tennis Italiana vinse l' unica Coppa Davis che abbiamo in bacheca,giocando non solo contro la Nazionale Cilena, ma anche contro l' intero Arco Costituzionale,democratico ed antifascista,nato dalla resistenza.

Sì, perchè allora il capitano non-giocatore Nicola Pietrangeli (nella foto) dovette battersi contro quasi l'intero Parlamento, Andreotti e Forlani in testa, che non volevano far partire Panatta, Bertolucci e Barazzutti verso il Cile del Fascista Pinochet. Cosa c'entrasse poi un evento sportivo con il Presidente Cileno, lo si potrebbe capire dalle molte risposte piene d'insulti che ho ricevuto al mio provocatorio post :"Pinochet ? Santo subito !" che ho fatto in occasione della scomparsa del Presidente Cileno. Evidentemente la disinformazione sparsa in questi anni ha dato ottimi frutti, basta vedere quanti italioti figli di italioti vanno in giro con magliette di un criminale assassino come Che Guevara e si tappano orecchie e occhi per non confrontarsi con versioni contrastanti la vulgata sull' 11 Settembre 1973.

L' Italia, dove le pessime e monotone musichette degli Inti illimani trovarono subito terreno di coltura fertile, nel 1976 non aveva ancora rimandato il proprio Ambasciatore in Cile, a differenza di tutte le grandi democrazie mondiali, nonostante un folto gruppo di italiani vivesse in Cile;italiani, come ricorda Mario Cervi sul Giornale di oggi, schierati con Pinochet e ,nonostante la delusione per la partenza quasi clandestina della Nostra Nazionale, fecero un gran tifo per i nostri colori ed alla fine festeggiarono per le strade di Santiago, applauditi dagli ospitalissimi cileni. Nazionale,detto per inciso, che dovette partire da Fiumicino quasi in segreto, per evitare i soliti italioti di cui sopra.

Pietrangeli pagò questa sua vittoria personale cadendo in disgrazia presso la Federtennis per una quindicina d'anni.

venerdì 15 dicembre 2006

CIAO, CLAY !

E' con profonda commozione che ho appreso la prematura scomparsa, a causa di un incidente automobilistico nei pressi di Parma, di un grandissimo Pilota e Uomo: Clay (Gian Claudio)Regazzoni, svizzero ticinese, ma Italiano d'adozione.

Più volte pilota della Ferrari, vincitore di 5 Gran Premi, era un esempio di simpatia ed umanità in un periodo buio come furono gli anni settanta. Nonostante la perdita dell'uso delle gambe in seguito ad un incidente, ha continuato per anni a gareggiare con vetture e camion, restando un esempio per molti ragazzi sfortunati e, più tardi, per Alex Zanardi.

CIAo, CLAY !

giovedì 14 dicembre 2006

Presidente Bertinotti:e Calabresi ?

Martedì nella Mia Milano c'è stata l'ennesima manifestazione per l' anniversario della Strage di Piazza Fontana; dico ennesima, poichè solitamente questa manifestazione in passato è sempre servita esclusivamente per ribadire che "La Strage o è di Stato o è Fascista", nonchè,spesso, per dar vita ad incidenti che violentavano e paralizzavano la città.

Quest'anno,con le sinistre,anche estreme,al potere temporaneo in Italia, si è invece vista una partecipazione istituzionale, con il presidente temporaneo della Camera, Fausto Bertinotti. Il quale,dopo l'ultima e definitiva sentenza della Cassazione che ha mandati assolti gli ultimi imputati neri (sui quali peserà sempre e comunque il sospetto della sinistra più becera),non potendo far leva sul collante antifascista che cementa parti anche distanti, ha dichiarato che "le vittime della Strage di Piazza Fontana non furono 16,ma 17" , riferendosi ad un'altra icona della vulgata rossa, Giuseppe Pinelli, l'anarchico che si suicidò gettandosi dalla finestra della Questura di Via Fatebenefratelli durante un interrogatorio come sospetto; icona che ha sempre descritto Pinelli come vittima di bieche torture in salsa cilena,nonchè assassinato dal Commissario Luigi Calabresi;insomma, un vero desaparecido ante litteram, come racconta questa mite e caritatevole canzoncina:

La Ballata del Pinelli.

Quella sera a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
Brigadiere apra un po' la finestra
E ad un tratto Pinelli cascò.

"Commissario io gliel'ho già detto
Le ripeto che sono innocente
Anarchia non vuol dire bombe
Ma eguaglianza nella libertà."

"Poche storie indiziato Pinelli
Il tuo amico Valpreda ha parlato
Lui è l'autore di questo attentato
E il suo socio sappiamo sei tu"

"Impossibile" – grida Pinelli –
"Un compagno non può averlo fatto
Tra i padroni bisogna cercare
Chi le bombe ha fatto scoppiar.

Altre bombe verranno gettate
Per fermare la lotta di classe
I padroni e i burocrati sanno
Che non siam più disposti a trattar"

"Ora basta indiziato Pinelli"
– Calabresi nervoso gridava –
"Tu Lo Grano apri un po' la finestra
Quattro piani son duri da far."

In dicembre a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
È bastato aprir la finestra
Una spinta e Pinelli cascò.

Dopo giorni eravamo in tremila
In tremila al tuo funerale
E nessuno può dimenticare
Quel che accanto alla bara giurò.

Ti hanno ucciso spezzandoti il collo
Sei caduto ed eri già morto
Calabresi ritorna in ufficio
Però adesso non è più tranquillo.

Ti hanno ucciso per farti tacere
Perché avevi capito l’inganno
Ora dormi, non puoi più parlare,
Ma i compagni ti vendicheranno.

"Progressisti" e recuperatori
Noi sputiamo sui vostri discorsi
Per Valpreda Pinelli e noi tutti
C’è soltanto una cosa da far.

Gli operai nelle fabbriche e fuori
Stan firmando la vostra condanna
Il potere comincia a tremare
La giustizia sarà giudicata.

Calabresi con Guida il fascista
Si ricordi che gli anni son lunghi
Prima o poi qualche cosa succede
Che il Pinelli farà ricordar.

Quella sera a Milano era caldo
Ma che caldo che caldo faceva
Brigadiere apra un po’ la finestra
E ad un tratto Pinelli cascò.

Ed infatti,come promesso da questa canzone,qualche anno dopo Luigi Calabresi venne ucciso da Lotta Continua, omicidio per il quale Adriano Sofri spero possa pagare fino in fondo la sua pena.

Dunque,se vogliamo, compagno Bertinotti, i morti furono 18.

Ma certi morti, come Pinelli o Carlo Giuliani, per la sinistra sono "mortipiùmorti" di altri,specialmente di veri ed ottimi servitori dello Stato come il commissario Luigi Calabresi.



mercoledì 13 dicembre 2006

11 Settembre 1973:parla Josè Pinera,un Liberale.

Dopo le polemiche del post precedente,che hanno scatenato i soliti antifascisti di professione che si sentono detentori della verità assoluta imposta dalla sinistra più becera,vorrei far raccontare quei giorni a Josè Pinera, Liberale Vero,Laureato in Economia ad Harvard, facente parte del gruppo di Liberali (Veri) che lavorò al progetto economico cileno e che divenne Ministro del Lavoro dal 1978 al 1980 e padre della riforma delle Pensioni e della Previdenza Sociale cilena.

Un economista stimato in tutto il mondo, non certo un Fascista, che ci da' una versione dei fatti che collima con quella espressa nelle 600 pagine del libro di Spataro.

Ma credo che neanche davanti a questo scritto gli antifascisti di professione ed i pacifinti riusciranno a comprendere la complessità di quei giorni che portarono Augusto Pinochet a dover prendere le redini di un Cile sull'orlo del baratro.

Non vanno al di la' dei loro eterni limiti, e così come Peppone ai tempi si grattava la testa davanti a quello che non capiva,ma si adeguava, continueranno ad adeguarsi nonostante le centinaia di migliaia di Cileni che in questi giorni hanno tributato gli ultimi onori al Presidente Augusto Pinochet.

Mercoledì 22 agosto 1973, il plenum della Camera di Deputati si riunì a mezzogiorno per “analizzare la situazione politica e legale che colpisce il paese”. Incominciando la sessione, i gruppi parlamentari dei Deputati del Partito Democratico Cristiano (PDC) e del Partito Nazionale (PN) presentarono un progetto di Accordo che avrebbe cambiato il corso della storia del Cile.

Il primo oratore fu il deputato del PDC Claudio Orrego il quale, nel suo discorso di presentazione del progetto di Accordo, affermò che “il paese sta soffrendo attualmente una crisi che non ha paragone nella nostra storia patria, durante centosessanta anni e tanti anni di vita indipendente.... Fino a questo momento la crisi non si risolve; al contrario, si acutizza giorno per giorno. Per questo motivo, noi, oggi, in questo consesso e di fronte al Cile, vogliamo dire che è arrivata l’ora, che è arrivato il momento per dire un’altra volta responsabilmente la nostra verità davanti al paese e davanti alla storia, perché il Congresso (leggi Parlamento, ndr) non può continuare a tacere la grave situazione che attraversa il Cile e deve avanzare un giudizio globale su di essa, perché la situazione di illegalità riguarda oltraggi reiterati alle risoluzioni del Congresso Nazionale, nonché oltraggi reiterati alle attribuzioni del Potere Giudiziario, ed ancora oltraggi reiterati alle facoltà dell’Organo di controllo generale della Repubblica (Contralorìa General de la Repubblica, ndr) e oltraggi reiterati ai diritti dei cittadini, ai mezzi di comunicazione dei cileni, e perfino, in alcuni casi, alla libertà delle persone.... Con questo quadro, signor Presidente, non bastano soluzioni parziali. Dentro questo quadro, quando un paese si sgretola, non bastano piccole manovre di politica sovrastrutturale. Qui bisogna risolvere i problemi di fondo” (Claudio Orrego V., Per una pace stabile tra i cileni, edizione privata dell’autore, 1974).

Il deputato Orrego affermò anche che il Presidente Salvador Allende non stava rispettando lo Statuto di Garanzie Democratiche che aveva fatto possibile la sua elezione. Questo elenco di diritti individuali era stato incorporato alla Costituzione nel 1970 come condizione affinché la Democrazia Cristiana votasse Allende come presidente, dato che quell’anno lui, candidato socialista, aveva ottenuto solo il 36,2 per cento del voto popolare e, pertanto, il Congresso poteva scegliere alla presidenza chiunque tra le due altre formazioni di maggioranza relativa. Più tardi, infatti, Allende avrebbe riconosciuto di aver firmato quello Statuto ma solo come una manovra “tattica”, (Regis Debray, The Chilean Revolution: Conversations with Allende, 1971).

Dopo l’intervento di un altro rappresentante del PDC, prese la parola il deputato del PN Hermógenes Pérez de Arce, che affermò che l’Accordo dimostrava che “il Potere Esecutivo aveva smesso di rispettare la Costituzione e la Legge, il che ha dato luogo all’illegittimità del mandato e all’esercizio del potere del Presidente della Repubblica”.

Dopo altri due deputati nazionali, intervenne il deputato Luis Maira della coalizione di partiti di governo chiamata Unità Popolare. Non negò le gravi accuse che faceva il progetto di Accordo e cercò di giustificare la condotta del governo sostenendo “che il problema di fondo non è altro che lo Stato di Diritto e la sua giusta correlazione con le trasformazioni economiche indispensabili”.

La sessione della mattina terminò con un focoso discorso del deputato Juan Luis Ossa, presidente della gioventù del PN. Nei paraggi dell’edificio in cui risiedeva il Congresso erano accaduti il giorno precedente gravi incidenti. Il deputato Ossa, attaccato da gruppi armati, si era visto obbligato a difendersi con un’arma da fuoco, affermando alla stampa che gli avevano sparato contro perfino con armi automatiche. La polizia non aveva agito in difesa dei giovani del suo partito. Esasperato per questo incidente, attaccò i deputati comunisti: “Per quel motivo voi, banda di traditori, banda di codardi, banda di venduti, banda di bugiardi e ipocriti, siete delegittimati dal parlare di guerra civile".
Quello era il clima che si viveva in Cile quel giorno di agosto.

Alle due e 13 minuti del pomeriggio si interruppe il dibattito. Nel mondo ispano, neanche temi così gravi e scottanti meritano il salto dell’ora del pranzo.

La sessione del pomeriggio, convocata per votare il progetto di Accordo, cominciò alle otto di sera. Ma ci fu una sorpresa. Dopo un breve dibattito, la Camera si costituì in sessione segreta su richiesta di Jorge Insunza ed il pubblico seduto in tribuna dovette abbandonare l’aula. In quella sessione, il deputato comunista pronunciò un discorso minaccioso sostenendo che, se si approvava il progetto di Accordo, forze straniere avrebbero invaso immediatamente il paese.

Al ritorno in seduta pubblica, si procedette immediatamente a votare. Una volta fatto lo scrutinio, il Presidente della Camera dei Deputati alzò la voce e dichiarò approvato per 81 voti contro 47 l’Accordo sottoposto a votazione. Alle 21 e 49 minuti si sciolse la seduta.

Il giorno dopo, 23 agosto, “El Mercurio” titolò così a tutta tutta pagina: “Ha deciso l’Accordo della Camera di Deputati: IL GOVERNO HA VIOLATO GRAVEMENTE LA COSTITUZIONE”.

Il testo dell’Accordo fu pubblicato integralmente quello stesso giorno da “El Mercurio”. I Verbali ufficiali della sessione che fu presieduta dal deputato del PDC Luis Pareto e quello del PN Gustavo Lorca, rispettivamente presidente e vicepresidente della Camera, fu pubblicata il 25 agosto dal quotidiano governativo “La Nacion”.

L’Accordo, approvato da quasi due terzi dei deputati, ovvero il 63.3 per cento dell’assemblea, accusava il governo del Presidente Allende di venti violazioni concrete alla Costituzione e alle leggi, tra le quali anche la protezione di gruppi armati, le torture, e il fermo illegale dei cittadini, o ancora l’imbavagliare la stampa, il manipolare l’educazione, il limitare la possibilità di uscire dal paese, il confiscare la proprietà privata, il formare organismi sediziosi, il violare le attribuzioni del Potere giudiziale, il Congresso e il Controllore Generale della Repubblica, e tutto ciò in maniera sistematica e col fine di instaurare in Cile “un sistema totalitario”, cioè, una dittatura comunista.

Fu un fatto straordinario che l’Accordo della Camera sia stato approvato da tutti i deputati del PDC, il partito maggioritario il cui leader indiscusso era il Presidente del Senato ed ex Presidente della Repubblica Eduardo Frey Montalva, dato che solo tre anni prima, il 24 ottobre del 1970, quello stesso partito aveva contribuito con tutti i suoi voti a nominare Presidente Salvador Allende nella sessione plenaria del Congresso.

Per John Locke, il grande pensatore inglese, la tirannia è “l’esercizio del potere oltre la legge”. Quando compare un tiranno, è lui che ha collocato il paese in stato di guerra oltrepassando i limiti del suo potere, cioè, si è “ribellato” (“re-bellare”, proviene dal latino “bellum” che significa guerra).
L’essenza dell’Accordo della Camera di Deputati insomma è l’accusa che il Congresso ha mosso al Presidente Allende che, nonostante fosse stato scelto democraticamente, si era ribellato contro la Costituzione e, pertanto, si era convertito in un “tiranno”.


Venti violazioni ed una chiamata disperata

L’Accordo della Camera di Deputati costituisce un vero “Accordo contro la Tirannia”. Ha 15 articoli e può riassumersi concettualmente nel seguente modo:

a) Un preambolo contenuto negli articoli dall’1 al 4 che enuncia le conosciute condizioni essenziali che devono darsi affinché esista un Stato di Diritto. Contiene un’avvertenza carica di significato (“un governo che si arroghi diritti che il popolo non gli ha concesso incorre in sedizione”), e ricorda che il Presidente Allende non fu scelto grazie alla maggioranza del voto popolare bensì dal Congresso Pieno, “previo accordo intorno ad un Statuto di garanzie democratiche incorporato alla Costituzione Politica”.

b) Venti accuse di violazioni alla Costituzione e alle leggi: un’accusa generica contenuta negli articoli 5 e 6, dieci su violazioni concrete a determinati diritti umani che sono enumerate dentro l’articolo 10, sette su violazioni alla separazione di poteri negli articoli 7, 8 e 9, e finalmente due su azioni di carattere sedizioso negli articoli 11 e 12. Questo elenco ha una struttura simile alla serie di accuse contro re Giorgio III ai tempi della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America.

c) Una precisione sul ruolo dei ministri militari che il Presidente Allende aveva incluso in posti chiave del suo gabinetto(Art. 13 e 14). Bisogna chiarire subito che lo stesso Presidente Allende aveva aperto le porte della politica ai militare conferendo, un anno prima, a vari generali ed ammiragli i ministeri chiave. Per alcuni mesi conferì perfino l’incarico politico di maggiore importanza e peso, il Ministero dell’Interno, al Comandante in Capo dell’Esercito, il generale Carlos Prats. Nell’agosto del 1973, un ammiraglio era Ministro delle Finanze, un ruolo chiave nella conduzione economica del paese.

d) Una chiamata al Presidente della Repubblica ed ai ministri membri delle Forze armate, Art.15, a mettere “immediatamente termine” a queste gravi violazioni alla Costituzione.

Il 23 agosto un messaggero della Camera consegnò nel palazzo presidenziale denominato “La Moneda” una busta diretta al Primo Mandatario col testo dell’Accordo votato la notte anteriore.
Il giorno dopo, giovedì, 24, il Presidente Allende rendeva pubblica una lettera diretta al paese. Nella quale sosteneva: “L’altro ieri, i deputati di opposizione hanno esortato formalmente le Forze armate e i Carabineros a che assumano una posizione deliberante di fronte al Governo.... Chiedere a Forze armate e Carabineros che portino a termine funzioni di governo al di fuori dell’autorità è competenza politica del Presidente della Repubblica, significa promuovere un colpo di Stato”.

Allende accusò la maggioranza dei deputati di volerlo rimuovere dall’incarico senza un’accusa costituzionale formale, ed aveva ragione. Proprio per quel motivo la Camera realizzò una “chiamata” all’intervento dei ministri militari, ed ovviamente attraverso essi alle Forze armate, perché la strada strettamente giuridica per rimuovere il Presidente era impossibile.

In effetti, la rimozione del Presidente, come previsto dall’articolo 42 della Costituzione promulgata nel 1925, esigeva per allontanare il Presidente i due terzi dei senatori in esercizio. Dato che il Senato si rinnovava parzialmente durante il mandato governativo, era virtualmente impossibile che un Presidente, per impopolare che fosse, perdesse così marcatamente le elezioni parlamentari durante il suo periodo al punto tale da rimanere senza l’appoggio di almeno un terzo dei senatori. Di fatto, l’opposizione al Presidente Allende vinse con una maggioranza assoluta le elezioni parlamentari del marzo del 1973, ottenendo quasi due terzi della Camera di Deputati, ma non la stessa maggioranza al Senato. In sintesi, la Costituzione di 1925 permetteva che un governo la violasse, perfino “sistematicamente” come sostenne un’ampia maggioranza dei deputati di allora, fino a quando quel governo poteva garantire al suo fianco un terzo dei senatori.

È emblematica la confusione su ciò che significa lo Stato di Diritto come dimostra la lettera di risposta di Allende, dato che dichiara che avrebbe insistito sulla sua strada illegale perché “dietro l’espressione ‘Stato di Diritto’ si nasconde una situazione che presuppone un’ingiustizia economica e sociale tra cileni che il nostro paese ha respinto. Pretendono di ignorare che lo Stato di Diritto si realizza solo pienamente nella misura in cui si superino le disuguaglianze di una società capitalista”.
Questa dichiarazione è assonante con quella che aveva dato il suo Ministro di Giustizia il 1° Luglio 1972: “La rivoluzione si manterrà dentro il diritto finché il diritto non pretende di frenare la rivoluzione”.

Le ragioni del testo dell’Accordo sono state spiegate da Claudio Orrego in questa maniera: “Il Presidente della Democrazia Cristiana, senatore Patricio Aylwin, mi raccomandò il compito di preparare il progetto di accordo. Mi sollecitò che parlassi col senatore Juan Hamilton... il quale mi informò che i parlamentari del Partito Nazionale avevano una brutta copia di dichiarazione che poteva risparmiarci molto lavoro. Presi contatto, allora, col senatore Sergio Diez e col deputato Mario Arnello chi mi diedero una copia del suo lavoro. Dopo avere analizzato detto documento, mi sembrò che contenesse molto materiale e che era molto ben fatto.... Una volta finito il lavoro - del quale conservo l’originale – lo trasmisi al senatore Aylwin affinché l’approvasse il Direttivo del PDC. Questi procedette col redigere nuovamente le conclusioni, nella forma in cui furono definitivamente proposte dalla Camera. Lo stesso giorno, il 22 di agosto, in mattinata, rividi il testo definitivo con Patrizio Aylwin e mi diressi al Congresso per presentarlo.... Quella è la relazione vera dell’Accordo voluto dalla Camera dei Deputati. La storia giudicherà la sua importanza e la sua opportunità” (da una lettera spedita a La Segunda il 26 marzo 1980).

Secondo Hermógenes Pérez de Arce, la prima brutta copia dell’Accordo la redasse il giurista Enrique Ortúzar e la rivide il senatore del PN Francisco Bulnes, ma anche lui stesso partecipò ad una riunione in merito al documento. Ciò è coerente con la versione di Orrego che segnala che la redazione finale del testo si basò su un lavoro “molto ben fatto” che gli consegnarono parlamentari del PN. Tutto indica allora che si tratta dello stesso testo, il quale fu arricchito da diverse persone del PN e del PDC alla ricerca di una copia finale che soddisfacesse tutti e così assicurasse la votazione unanime dei deputati di entrambi i partiti.


L’opzione della violenza politica

Come si spiega che un Presidente che arrivò al potere attraverso un’elezione democratica eserciti poi il suo potere contro la stessa Costituzione e le stesse leggi che gli permisero di raggiungere la più alta carica politica della Repubblica? Perché un governo eletto democraticamente considerò necessario incorrere in venti violazioni della Costituzione?

La risposta sta nel fatto che una rivoluzione comunista-socialista che cerca di stabilire quello che la sua stessa dottrina ha denominato “la dittatura del proletariato”, per definizione non si può fare nei limiti della Costituzione e della legge di una repubblica democratica.

Una cosa è per un dirigente marxista trasformarsi in presidente democratico di un paese ottenendo il 36,2 percento della votazione, contando sull’accettazione di un Congresso quando a questo gli corrisponde l’elezione finale, ed un’altra cosa, molto diversa, è acquisire la totalità del potere necessario per abolire la democrazia e stabilire un sistema totalitario. Per ciò si richiedeva una maggioranza opprimente per poter realizzare le modificazioni necessarie alla Carta Fondamentale. Ciò non è mai successo nella storia dell’umanità, perché tutti i regimi hanno raggiunto il potere totale attraverso la violenza.

E’ un errore attribuire la rottura cilena alla poca pazienza di uno dei partiti della sinistra marxista all’interno della coalizione, o ad una riunione sediziosa di alcuni deputati con dei marinai in una nave militare, o perfino ad un discorso delirante in un stadio richiamando alla “insurrezione delle masse”. Questi fatti che sì accaddero, possono essere stati detonanti, ma la causa profonda fu un’ideologia ed una prassi, tanto sistematica quanto implacabile che concepiva la violenza come “la levatrice della storia”.

Sono determinanti per comprendere l’origine della rottura democratica i due accordi ufficiali del Partito Socialista del Cile adottati, all’unanimità, nei suoi Congressi annuali del 1965 e del 1967.
Già nel suo Congresso di Linares (Luglio 1965) il Partito Socialista del Cile che si definiva marxista-leninista, aveva sostenuto la cosa seguente: “La nostra strategia scarta in realtà la via elettorale come metodo per raggiungere il nostro obiettivo di presa del potere.... Il partito ha un obiettivo: per raggiungerlo dovrà usare i metodi ed i mezzi che la lotta rivoluzionaria renda necessari”.

Ma fu nel suo Congresso di Chillán quando la posizione sediziosa raggiunse la sua massima espressione. Ciò ebbe luogo tra il 24 ed il 26 novembre 1967 ed assisterono 115 delegati, e parteciparono anche molti “delegati fraterni” dei governi comunisti dell’URSS, della Germania Orientale, della Romania della Yugoslavia, del partito Baath socialista siriano e del partito socialista dell’Uruguay.

La risoluzione adottata affermava che “la violenza rivoluzionaria è inevitabile e legittima.... Costituisce l’unica via che conduce alla presa del potere politico ed economico, e la sua ulteriore difesa e rinvigorimento. Solo distruggendo l’apparato democratico-militare dello Stato borghese può consolidarsi la rivoluzione socialista.... Le forme pacifiche o legali di lotta non conducono per loro stesse al potere. Il Partito Socialista li considera come strumenti limitati di azione incorporati al processo politico che ci porta alla lotta armata. La politica del fronte dei lavoratori si prolunga e si sente contenuta nella politica dell’Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà (OLAS), quella che riflette la nuova dimensione continentale, ed armata, che ha acquisito il processo rivoluzionario latinoamericano” (Julio César Jobet, La Storia del Partito Socialista del Cile, 1997).

L’ideologo del Partito Socialista, e futuro Ministro degli Esteri del Presidente Allende, Clodomiro Almeyda, avanzò osservazioni sul modo in cui sarebbe finito il processo in corso: “La forma fondamentale che in un paese come il Cile possa assumere la fase superiore della lotta politica, quando il processo vigente arrivi a collocare all’ordine del giorno il problema del potere, è imprevedibile in termini assoluti. Io propendo a credere che è più probabile che prenda la forma di una guerra civile rivoluzianaria, alla maniera spagnola, con intervento straniero, ma di corso più rapido ed acuto” (Rivista Punto Final, 22 novembre di 1967).

Val la pena notare che il Partito Socialista era il secondo di maggiore grandezza del paese ed era il principale partito nella coalizione, l’Unità Popolare che governò il Cile tra il 1970 e il 1973, e che Salvador Allende era il suo più agguerrito militante. Il suo partito alleato, il Partito Comunista del Cile, era il maggiore e migliore organizzato di tutti i Partiti Comunisti dell’America Latina, ed il terzo in in grandezza, dopo quelli della Francia e dell’Italia, di tutto il mondo occidentale insomma.
Per certo, tutto questo succedeva nel contesto della Guerra Fredda, nella quale il governo dell’Unità Popolare si era alleato con l’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti e l’Europa democratica.
Probabilmente senza avere mai letto George Orwell, Allende chiamò la superpotenza comunista il “fratello maggiore” del Cile, in un discorso tenuto al Cremlino il 7 dicembre del 1972, nel quale affermò, dopo essersi riunito coi massimi gerarchi sovietici Leonid Brezhnev, Alexei Kosygin e Nikolai Podgorny, che aveva raggiunto una “completa identità di punti di vista” coi dirigenti comunisti.
Questa adesione ai regimi comunisti veniva da molto prima. Dai tempi dell’omaggio a Stalin a Santiago, una settimana dopo la sua morte, nel marzo del 1953, dove uno degli oratori principali fu il socialista Salvador Allende.

È bene ricordare anche l’incredibile omaggio a Stalin dell’importante dirigente comunista cileno Volodia Teitelboim: “Oggi dorme la sua gloria eterna nella camera ardente della Sala delle Colonne di Mosca il camerata José Stalin. E’ da un solo giorno e qualche ora che è morto l’amato conduttore dei lavoratori del mondo, il più grande, profondo e nobile amico dell’umanità.... è morto il padre ed il capo di tutta l’umanità progressista. È morto, come Mayakovsky diceva di Lenin, il più umano di tutti gli uomini.... Diede abbondanza ed esistenza felice al suo paese. Sotto la bandiera di lutto, ma sempre spiegata di Stalin, i paesi vanno per la strada più breve verso la sicura vittoria, verso il mondo della felicità umana” (El Siglo, marzo di 1953).

Nella decade degli anni ‘60, Allende accettò servire come presidente dell’Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà (OLAS), un organismo castrista per esportare la rivoluzione comunista al continente, quella che aveva affermato pubblicamente che “la rivoluzione armata è l’unica soluzione per i mali sociali ed economici dell’America latina”.

Claudio Véliz, storiografo ed amico personale di Allende, sostiene che i viaggi di Allende a Cuba ebbero “un’incidenza fondamentale nel progetto che pretendeva di applicare in Cile. Dopo aver visto Cuba, Allende pensò che poteva accorciare la strada. Ma la verità è che si allontanò dalla tradizione cilena.... non c’è nessun dubbio che il governo dell’Unità Popolare fu un disastro che ci portò alla guerra civile” (El Mercurio, 28 novembre, 1999).

Allende, essendo presidente del Senato, espresse in vari episodi il suo appoggio al Movimento di Sinistra Rivoluzionaria (MIR), gruppo che iniziò la violenza guerrigliera in Cile. Per certo, la violenza era stata idealizzata dai leader di sinistra del Cile e del continente per un lungo tempo.

Infine, i dirigenti marxisti cileni non seppero resistere l’incantesimo della Rivoluzione comunista cubana. Il tiranno dei Caraibi, Fidel Castro, si trasformò nel modello e furono intossicati, come se fossero adolescenti, per la retorica e l’azione rivoluzionaria del Che Guevara, il quale pretendeva creare “molteplici Vietnam” in America Latina.

Una distinzione fondamentale che non si fece fu quella tra il nobile obiettivo di volere cambiare il mondo in meglio e cercare di farlo utilizzando la violenza. Nel nostro paese esisteva, agli inizi degli Anni ’70, troppa povertà, sottosviluppo, monopoli ed ingiustizie di distinta natura, per evitare che molte persone idealiste, specialmente i giovani, non si dichiarassero in stato di disubbidienza e cercassero, benché con più passione che rigore, una strada per creare un mondo migliore. Basta leggere il “Bilancio Patriottico” di Vicente Huidobro, edito nel 1925, per dimostrare che non molto era cambiato in cinquanta anni.

Quello che è aberrante è che tanti dirigenti comunisti e socialisti cileni, dai quali ci si attendeva un minimo di maturità e responsabilità politica, spingessero, inizialmente con la retorica incendiaria, e più tardi coi loro atti di governo, decine di migliaia di giovani verso l’bisso - ed alle conseguenze - della violenza politica.

In questo contesto, è commovente l’onesta confessione di un ex guerrigliero argentino: “Oggi posso affermare che per fortuna non ottenemmo la vittoria, perché se fosse stato così, tenedo in conto sia la nostra formazione che il grado di dipendenza da Cuba, avremmo soffocato il continente in una barbarie generalizzata. Una delle nostre consegne era fare della cordigliera delle Ande la Sierra Maestra dell’America Latina, dove, prima avremmo fucilato i militari, dopo gli oppositori, e dopo ancora i compagni che si fossero opposti al nostro autoritarismo” (Jorge Masetti, Il Furore ed il Delirio, 1999).


Alle soglie della guerra civile

La risposta del Presidente Allende all’Accordo votato dalla Camera non fu l’unica nella quale dimostrò il suo disprezzo per lo Stato di Diritto. Durante il 1973 la Corte Suprema gli aveva rimproverato di aver esautorato le attribuzioni proprie di quel’istituzione, il che portò ad una violenta disputa epistolare tra essi. Ovviamente, perfino l’Unità Popolare aveva sviluppato l’insolita teoria giuridica degli “spiragli legali”, grazie alla quale non solo aveva fatto progredire l’interventismo statale in multiple imprese private di ogni grandezza, ma stava erodendo in maniera fatale la necessaria fiducia pubblica nelle istituzioni fondamentali della Repubblica.

Così, il 26 maggio del 1973, per protesta contro un parere negativo del governo a compiere una decisione giudiziale, la Corte Suprema decise all’unanimità di rivolgersi così al Presidente della Repubblica: “Questa Corte Suprema si vede obbligata a sottoporre a Sua Eccellenza per l’ennesima volta l’atteggiamento illecito dell’autorità amministrativa nella sua interferenza illegale in temi giudiziali, nel tentativo di ostacolare la polizia nell’esecuzione di ordini dei tribunali; ordini che, sotto le leggi vigenti, devono essere portati a capo per detta forza poliziesca senza ostacoli di nessun tipo; tutto ciò implica un disprezzo aperto e volontario delle sentenze giudiziali, con completa ignoranza rispetto alle alterazioni che tali atteggiamenti od omissioni producono nell’ordine legale; come si scrisse a Sua Eccellenza in un dispaccio precedente, si tratta di atteggiamenti che implicano non solo la crisi nello Stato di Diritto, ma anche la rottura perentoria o imminente della legalità della Nazione”.

Allende, in un discorso pubblico pochi giorni dopo, rispose con un’affermazione che gli sarebbe costata l’immediata destituzione dal suo incarico in qualunque paese di lunga tradizione democratica: “In un periodo di rivoluzione, il potere politico ha diritto di decidere in ultima istanza se le decisioni giudiziali non concordano con le alte mete e necessità storiche di trasformazione della società, quelle che devono avere assoluta precedenza su qualunque altra considerazione; come conseguenza, l’esecutivo ha il diritto di decidere se portare a termine o no le sentenze della Giustizia”.

Val la pena notare che, il giorno dopo l’Accordo della Camera, il 23 agosto, la Corte Suprema adottò un’altra risoluzione denunciando nuovamente i tentativi del governo di calpestare l’indipendenza del Potere Giudiziario.

A metà del 1973, l’esercizio antidemocratico del potere da parte del Presidente Allende e dei suoi ministri aveva condotto, insomma, non solo ad un aperto conflitto costituzionale tra il Presidente della Repubblica ed il Potere Legislativo, ma anche ad un grave scontro tra questo Presidente ed il Potere Giudiziario.
A questo punto, è opportuno precisare che, benché la crescente crisi economica - inflazione annuale attorno al 300 per cento, razionamenti, crisi della bilancia dei pagamenti, disoccupazione in aumento, sfiducia - produceva miseria ed angosce generalizzate e creava una scatola di risonanza per questi conflitti istituzionali, ma questo non era l’argomento valido per rimuovere il governo.
Come il paese era arrivato ad essere “un campo armato”, il che preoccupava oltremodo le Forze Armate, bisognava essere ciechi per ignorare che, durante l’inverno del 1973 (in Cile l’inverno corrisponde all’estate europea, ndr), il Cile era caduto in un stato di guerra civile (Due libri importanti e complementari che dimostrano questa realtà sono quelli di Paul Sigmund, The Overthrow of Allende, e di James Wheelan, Dalle Ceneri.

Óscar Waiss che fu direttore del quotidiano ufficiale del governo ed intimo amico di Allende, esponendo alcuni scenari possibili rifletté il grado di estremismo che prevaleva in alcuni dirigenti dell’Unità Popolare: “Era arrivato il momento di gettare il feticismo legalista in un fosso; il momento di giubilare i militari cospiratori; di destituire il Controllore Generale della Repubblica; di intervenire sulla Corte Suprema di Giustizia e sul Potere Giudiziario; di pignorare “El Mercurio” e tutta la banda giornalistica controrivoluzionaria. Risultava meglio dare il primo colpo, perché chi picchia per primo picchia due volte”, (Rivista ‘Politico Internazionale’ Nº 600, Belgrado, aprile 1975).

A dispetto della sua chiara responsabilità nell’introduzione della violenza politica in Cile, sembra altamente improbabile che il Presidente Allende sarebbe stato disposto a lavorare con la stessa immoralità estrema dei dirigenti bolscevichi che realizzarono la sanguinaria Rivoluzione d’Ottobre in Russia.

Ma, grazie a Dio, non si potrà mai rispondere alla domanda: Chi, dentro l’Unità Popolare, sarebbe stato il Lenin cileno?


Frei inclina la bilancia

Salvador Allende arrivò alla presidenza dopo il fallimento dei governi di Jorge Alessandri (1958-1964) e di Eduardo Frei Montalva (1964-1970).

Entrambi i governi furono incapaci di cambiare la fallimentare strategia di sviluppo, che generava una crescita economica tanto mediocre che rendeva impossibile sconfiggere la miseria e creare un orizzonte di prosperità per tutti i cileni, ed ambedue aprirono la strada verso la violazione del diritto di proprietà, fondamento essenziale di una società libera. Questa relazione indissolubile, concettuale e storica, tra proprietà e libertà l’ha ben dimostrata Richard Pipes nel suo libro Property and Freedom (1999).

Óscar Godoy, Direttore dell’Istituto di Scienza Politica dell’Università Cattolica, sostiene che “la responsabilità dei partiti di destra nell’arrivo al governo dell’Unità Popolare fu che non seppero difendere opportunamente e con vigore le istituzioni dello Stato liberale. Per esempio, la difesa che si fece del diritto di proprietà fu minima, perché venne attaccata sistematicamente. Quando la destra ha la possibilità di recuperare, con Jorge Alessandri, si manifesta impotente di fronte alla novità della Democrazia Cristiana e del socialismo ed evidenzia la sua debolezza. È deplorevole la scarsità di uomini pubblici nella destra disposti a difendere i suoi progetti con lo stesso vigore con cui i socialisti difendevano i loro. La campagna di Jorge Alessandri fa concessioni multiple per occultare la vera natura del progetto liberale. In quel tempo c’era paura di pronunciare le parole mercato, concorrenza, individualismo, ecc. Da cui ne derivò un certo zoppicamento che rese la destra molto debole”(La Epoca, 4 settembre di 1995).

L’indebolimento del diritto di proprietà in Cile cominciò, in effetti, con la riforma costituzionale propiziata dal governo del Presidente Alessandri con la scusa di iniziare la Riforma Agraria. Furono profetiche, benché non ascolate, le avvertenze dell’ex presidente della Società Nazionale di Agricoltura, Recaredo Ossa: “La rottura di queste garanzie costituzionali rispetto all’agricoltura è solo il principio del fallimento del nostro sistema democratico. Quello che oggi si fa contro questo ramo della produzione potrebbe essere fatto anche domani contro la proprietà immobiliare, il settore minerario grande, medio o piccolo, il commercio e tutti i beni particolari. Diciamo di più: la Riforma Costituzionale è l’esperienza pilota in materia di abolizione del diritto di proprietà. Introdotto questo cuneo che alcuni guardano con apprensione, il buco si trasformerà in un’immensa crepa nel quale sparirà la proprietà intera” (Questo intervento radiofonico fu riprodotto da El Mercurio il 6 gennaio 1962).

Il governo Frei insistette su questa strada, incorrendo inoltre in due altri gravi errori di politica pubblica. In primo luogo, fu debole davanti alla nascita della violenza politica, e fu specialmente grave che non reagisse con vigore in difesa della democrazia e lo Stato di Diritto quando il Partito Socialista si dichiarò sostenitore della via armata nel suo Congresso di Chillán del 1967. Secondo, la Riforma Agraria del governo Frei moltiplicò i casi di violazione del diritto di proprietà espropriando migliaia di proprietà agricole senza una giusta compensazione. Inoltre, il suo governo permise la proliferazione degli espropri di proprietà altrui da parte di gruppi di agitatori. Al governo di Frei espropriarono tutto: università, municipalità, centinaia di proprietà agricole, zone erariali, strade, industrie, un quartiere militare, e perfino la Cattedrale di Santiago. In quell’ambiente non c’era da meravigliarsi che i partiti di sinistra sentissero fattibile l’accaparramento totale del potere.
Falliti i governi di “destra” e di “centro” di Alessandri e Frei, e non esistendo, come abbiamo visto, una “sinistra” democratica, la conclusione era pronosticabile. Nell’agosto del 1965, lo stesso Frei aveva detto: “Se il mio governo fallisce, avremo un governo di estrema sinistra” (Leonard Gross The Last, Best Hope, 1967).

Ciò che risultò tanto imprevedibile quanto straordinario, alla fine del suo mandato, fu che una figura politica tanto paurosa di apparire come “anticomunista”, come Eduardo Frei Montalva, decidesse davanti al crocevia in cui lo collocò la Storia, di giocare il tutto per tutto per salvare il Cile da una dittatura marxista.

Frei viveva sotto il peso della dura accusa che gli fu avanzata alla fine degli Anni ’60 ovvero, se consegnava il governo ad Allende, sarebbe passato alla Storia come il “Kerensky cileno”. Tuttavia, decise di rimanere in Cile durante questo periodo, in circostanze tali che il suo ex ministro dell’Interno ed erede politico, Edmundo Pérez Zujovic, assassinato nel 1971 per mano dei terroristi di sinistra, dato che anche la sua stessa vita era in pericolo. Ciò contrasta con l’atteggiamento di Alexander Kerensky che scappò da San Pietroburgo e morì a New York, precisamente nel 1970, anno in cui Frei consegnò il potere ad Allende, scrivendo libri su quanto fu incapace di evitare che una banda di audaci bolscevichi si prendesse la Russia con la forza.

Frei deve avere saputo che la sua posizione sarebbe stata criticata non solo dai suoi avversari, ma perfino da molti dei suoi amici, come effettivamente fece il suo ex Ministro dell’Interno, Bernardo Leighton, che attribuì l’atteggiamento di Frei a “un vero peso sulla coscienza per il trionfo dell’Unità Popolare, che vidi cadere sul tuo spirito, opprimendolo, nei giorni posteriori all’elezione di Salvador Allende” (Lettera a Frei, 26 giugno, 1975).

Frei ritornò nell’arena politica presentandosi nelle elezioni parlamentari del marzo del 1973 come candidato a senatore per Santiago, ed una volta eletto accettò la presidenza del Senato, trasformandosi, pertanto, nell’avversario principale di Allende.

Il suo collaboratore più vicino, il senatore democristiano Patrizio Aylwin, aveva presentato, il 12 maggio del 1973, una mozione nell’Assemblea Generale del suo partito, che fu approvata, nella quale si accusava il governo di Allende di cercare di stabilire in Cile una “tirannia comunista”. Posteriormente, Aylwin rivede il progetto di Accordo, redige le sue conclusioni, e, senza dubbio dopo ottenere l’assenso di Frei, presidente del Senato e leader indiscusso dei democristiani, lo trasmette ad Orrego per l’approvazione finale. Ancora di più, è Aylwin che replica pubblicamente ad Allende dopo la risposta di quest’ultimo all’Accordo.

Per certo, i dirigenti del Partito Nazionale, capeggiati da un coraggioso e combattivo presidente, Sergio Onofre Jarpa, avevano denunciato molto presto il crescente allontanamento dalla legalità del governo dell’Unità Popolare.

Tuttavia, è logico affermare che quello che inclinò la bilancia, tanto nella popolazione come nei comandi militari, fu la posizione che Eduardo Frei assunse, con inusitata forza, in quei mesi cruciali del 1973. In qualità di Presidente del Senato, era il leader con maggiore potere per convocare l’opposizione ed era anche il dirigente cileno che, da lontano, aveva il maggiore prestigio internazionale. Non a caso, il Times di Londra l’aveva definito come “la personalità politica più importante dell’America Latina”.

Esistono testimonianze del fatto che in certi momenti, Frei ebbe la convinzione che solo le Forze Armate potevano evitare che il Cile si trasformasse in una seconda Cuba.

Nei significativi “Verbali Rivera (Acta Rivera nel testo originale)”, si descrive una riunione del 6 Luglio del 1973 tra Frei e la direzione della “Sociedad de Fomento Fabril”, la massima entità corporativa che raggruppava gli industriali cileni. Nella riunione i dirigenti gli dicono che “il paese si stava disintegrando e che se non si adottavano misure urgenti fatalmente sarebbe caduto in una cruenta dittatura marxista, alla cubana”.

La risposta di Eduardo Frei è rivelatrice: “Niente posso fare io, né il Congresso né nessun civile. Disgraziatamente, questo problema si risolve solo con i fucili... consiglio lor signori di esporre crudamente queste apprensioni, che condivido pienamente, ai comandanti in Capo delle Forze Armate, magari oggi stesso”.

La testimonianza più importante di Frei in questa materia è la sua lettera datata 8 Novembre 1973 indirizzata al Presidente della Democrazia Cristiana Internazionale, il politico italiano Mariano Rumor. Nella missiva Frei reitera le accuse che prima erano già state mosse con l’Accordo della Camera: “Trattarono in maniera implacabile di imporre chiaramente un modello di società ispirato al Marxismo Leninismo. Per riuscirci applicarono in maniera distorta le leggi o le ignorarono apertamente, ignorando anche i Tribunali di Giustizia.... In questo tentativo di dominio arrivarono a proporre la sostituzione del Congresso con una Assemblea Popolare e la creazione di Tribunali Popolari, alcuni dei quali arrivarono persino a funzionare, come fu denunciato pubblicamente. Pretesero inoltre di trasformare tutto il sistema educativo, basato su un processo di indottrinamento marxista. Questi tentativi furono vigorosamente respinti non solo dai partiti politici democratici, bensì dai sindacati e dalle organizzazioni di base di ogni specie, ed in merito all’educazione si manifestò la protesta della Chiesa Cattolica e di tutte le confessioni protestanti che fecero pubblicamente atto di opposizione. Di fronte a questi fatti la Democrazia Cristiana non poteva rimanere naturalmente in silenzio. Era suo dovere - e lo compì - denunciare questo tentativo totalitario che si presentò sempre con una maschera democratica per guadagnare tempo ed occultare i suoi veri obiettivi”.

Frei comprese anche che un Cile comunista avrebbe mirato, come una lunga spada, al cuore di una vulnerabile America Latina. Frei dice a Rumor che “la caduta di Allende è stata una retrocessione per il comunismo mondiale. La combinazione di Cuba col Cile, coi suoi 4.500 chilometri di costa sull’Oceano Pacifico e la sua influenza intellettuale e politica in America Latina, fu un passo decisivo nel tentativo di controllo quell’emisfero. Tutto ciò spiega quella violenta ed esagerata reazione. Il Cile stava per diventare una base di operazioni per tutto il continente”.

Questa prospettiva è confermata da Brian Crozier, fondatore del “London’s Institute for the Study of Conflict”: “Durante i suoi tre anni al potere, Allende trasformò il suo paese, in realtà, in un satellite cubano, e pertanto un’addizione incipiente all’Impero Sovietico... a quei tempi il Cile poteva essere francamente descritto come un stato marxista in termini ideologici ed economici... da una prospettiva strategica, era stato trasformato in un’importante base per operazioni sovversive sovietiche e cubane, incluso il terrorismo per tutta l’America Latina... il KGB sovietico stava reclutando membri per corsi di allenamento in materia terroristica... specialisti della Corea del Nord stavano insegnando a giovani membri del Partito Socialista di Allende”.(The Rise and Fall of the Soviet Empire), 1999.

In una conversazione con un giornalista del diario spagnolo ABC, edita il 10 ottobre 1973, Frei aveva dato già giudizi duri contro l’Unità Popolare e giustificato pienamente l’intervento militare: “Il paese non ha più uscita se non con un governo dei militare”; “Il mondo non sa che il marxismo cileno disponeva di un armamento superiore in numero e qualità a quello dell’Esercito”; “I militari furono chiamati, e hanno adempiuto ad un obbligo legale, perché il potere esecutivo e quello giudiziale, il Congresso e la Corte Suprema avevano denunciato pubblicamente che la presidenza ed il suo regime rompevano la Costituzione”; “La guerra civile era pronta per i marxisti”; “E’ allarmante che in Europa non vengano a sapere la realtà delle cose: Allende lasciò la nazione distrutta”.

Successivamente Frei realizzò una dichiarazione pubblica in cui riconobbe di avere parlato col giornalista Luis Calvo dell’ABC, nella quale segnala che l’intervista non rifletteva esattamente le sue parole, senza però chiarire quali furono le imprecisioni. Più tardi, nella lettera citata scritta a Leighton, Frei dice specificamente che non fece quella dura descrizione di Allende che gli è stata attribuita nell’intervista, ma non smentisce il resto. Leighton accetta quella ritrattazione su Allende, ma gli dice che gli altri giudizi sono gli stessi che gli sentì dire in maniera consistente per anni.
Un terzo testo chiave di Frei è il prologo che scrive nel libro – dal titolo eloquente - del commentatore politico democristiano Genaro Arraigada, Dalla Via Cilena alla Via Insurrezionale (1974). Lì Frei sostiene idee simili a quelle contenute nella lettera a Rumor come epigrafe del suo prologo, Frei sceglie questa avvertenza di Píndaro: “Facile è, perfino per il più debole, distruggere una città fino alle sue fondamenta; ma è, invece, un’impresa molto dura edificarla di nuovo”.
Non smette di essere sorprendente il fatto che in quello stesso 1973 in cui si scriveva il certificato di morte della democrazia cilena e morivano molti dei nobili sogni dei fondatori del PDC, decedeva anche in Francia Jacques Maritain, il filosofo-politico francese che tanto ammirava Eduardo Frei, il quale lo aveva visitato nel suo letto di malato nella sua gita di successo in Europa nel 1965.


Le Forze armate ubbidiscono

All’alba di martedì 11 settembre del 1973, esattamente 18 giorni dopo che i ministri militari ricevettero formalmente l’Accordo della Camera dei Deputati, le Forze armate cilene iniziarono in tutto il territorio un’operazione militare per compiere il mandato parlamentare.
Lo capì molto bene lo storiografo Richard Pipes, professore dell’Università di Harvard il quale ha sostenuto che, con l’Accordo, “la Camera sollecitò le Forze armate affinché restaurassero le leggi del paese. Obbedendo a questo mandato, 18 giorni dopo appunto i militari cileni, capeggiati dal generale Augusto Pinochet, rimossero con la forza Allende del suo carico” (Communism. A Brief Story, 2001).

Il 13 settembre 1973, l’influente rivista di opinione britannica, The Economist, pubblicò un editoriale intitolato “La fine di Allende” il cui contenuto è tanto rivelatore che merita essere analizzato integralmente.

La rivista è chiara nell’assegnare la responsabilità della rottura di due giorni prima: “La morte transitoria della democrazia in Cile sarà deplorevole, ma la responsabilità diretta appartiene chiaramente al Dr. Allende e a quelli tra i suoi seguaci che costantemente calpestarono la Costituzione”.

L’articolo inoltre va più in là ed assegna ad Allende la responsabilità per la violenza posteriore: “La battaglia sembra appena essere cominciata. Con la maggioranza dei canali di comunicazione del Cile interdetti verso il mondo esterno, è difficile avere un’idea più completa della violenza che apparentemente continua. Ma se una sanguinante guerra civile cominciasse, o se i generali che ora controllano il potere decidono di non richiamare a nuove elezioni, non ci sarà dubbio alcuno rispetto a chi ha la responsabilità per la tragedia del Cile. La responsabilità è del Dr. Allende e di quelli nei partiti marxisti che applicarono una strategia per controllare il potere totale, al punto che l’opposizione perse le speranze di controllarli con mezzi costituzionali”.

La spiegazione che fa la rivista britannica della situazione in Cile l’avrebbe potuto firmarla chiunque tra i deputati che approvarono l’Accordo: “Quello che accadde a Santiago non è un colpo tipicamente latinoamericano. Le forze armate tollerarono il Dr. Allende per quasi tre anni. In quel periodo, egli le inventò tutte per affondare il paese nella peggiore crisi sociale ed economica della sua storia moderna. L’espropriazione di terreni ed imprese private provocò un’allarmante caduta nella produzione, e le perdite delle imprese statali, come da cifre ufficiali, superarono i 1.000 milioni di dollari. L’inflazione raggiunse il 350 percento negli ultimi 12 mesi. I piccoli impresari fallirono; i funzionari pubblici e i lavoratori specializzati soffrirono la quasi scomparsa dei loro stipendi causa l’inflazione; le padrone di casa dovevano fare interminabili code per ottenere alimenti essenziali, se li trovavano. La crescente disperazione originò scioperi enormi tra i camionisti iniziati sei settimane fa. Ma il governo di Allende fece di più che distruggere l’economia. Violò la lettera e lo spirito della Costituzione. La forma in cui bypassò duramente il Congresso ed i Tribunali debilitò la fede nelle istituzioni democratiche del paese”.

The Economist fu uno dei pochi mezzi di comunicazione stranieri che menzionarono allora il cruciale Accordo del 22 di agosto: “Il mese scorso, una risoluzione promossa dalla maggioranza oppositrice nel Congresso segnalava che il governo non è responsabile solo per violazioni isolate della Costituzione e della legge; ma ha trasformato tali violazioni in un metodo permanente di condotta”.
Per la rivista britannica la causa del golpe “furono gli sforzi degli estremisti di sinistra per promuovere la sovversione dentro le Forze Armate. Il signor Carlos Altamirano, ex segretario generale del partito socialista, ed il signor Óscar Garretón del Movimento di Azione Popolare Unitaria, entrambi leader dell’Unità Popolare di Allende, furono segnalati dall’esercito come gli autori intellettuali del piano di ammutinamento dei marinai in Valparaíso.... Il comune sentire relativo al fatto che il Parlamento fosse già irrilevante aumentò causa la violenza per le strade e per il modo in cui il governo tollerò la nascita di gruppi armati di estrema sinistra che si stavano preparando in maniera aperta per la guerra civile”.

The Economist giustifica pienamente l’intervento militare quando sostiene che “le forze armate intervennero solo quando fu chiaramente stabilito che esisteva un mandato popolare per l’intervento militare. Le Forze Armate dovettero intervenire perché fallirono tutti i mezzi costituzionali per frenare un governo che si comportava in maniera incostituzionale”, e fa un’importante precisazione: “Il Generale Pinochet e gli ufficiali che l’accompagnano non sono fanti di nessuno. Il suo golpe fu preparato in casa, ed i tentativi per fare credere che i nordamericani fossero implicati sono assurdi, specialmente per chi conosce la cautela dei nordamericana nelle loro recenti trattative col Cile”.
The Economist anticipa, in primo luogo, che il compito di ricostruzione sarà difficile e che ci saranno eccessi ed ingiustizie: “Chiunque sia il governo che sorga dal colpo militare, non può aspettarsi tempi facili. Anche quelli che soffrirono sotto il governo di Allende sentiranno la tentazione di saldare i conti con gli sconfitti”. Secondo, anticipa la collaborazione militare con economisti civili anticipando: “Il governo militare-tecnocratico che sta apparentemente prendendo forma cercherà di ricostruire il tessuto sociale che il governo di Allende ha distrutto”. E conclude con un lamento ed una verità: “Questo significherà la morte transitoria della democrazia in Cile, il che è deplorevole, ma non deve essere dimenticato chi ha reso tutto questo inevitabile”.


La conclusione naturale

Alexander Solzhenytsin, il grande scrittore ed intellettuale russo che denunciò l’orrore dei campi di concentramento nell’Unione Sovietica, affermò che “il comunismo si blocca solo quando trova una muraglia”.

Man mano che il governo dell’Unità Popolare restringeva le libertà economiche, sociali e politiche col proposito di fare la sua rivoluzione marxista, sorse, dai più diversi ambiti della società cilena, una forte resistenza civile che si trasformò presto in una valanga di proteste, manifestazioni, scioperi e denunce.

Alla fine fu questa pressione della civiltà quella che spinse ai partiti politici di opposizione all’approvazione dell’Accordo della Camera di Deputati, e dopo le Forze Armate ad obbedire alla chiamata dell’Accordo stesso, rimuovendo con la forza il presidente in carica che stava violando “sistematicamente” la Costituzione della Repubblica.

La resistenza civile generalizzata che si concluse con l’Accordo della Camera di Deputati fu “la muraglia” alla quale si trovò di fronte il comunismo in Cile. Questo Accordo, insomma, costituisce l’inizio della fine del governo del Presidente Allende ed il certificato di battesimo del governo del Presidente Pinochet.

Come affermò uno degli uomini chiave dietro l’Accordo, ed allora Presidente della Democrazia Cristiano, Patrizio Aylwin: “Il governo di Allende aveva esaurito, con un totale fallimento, la via cilena verso il socialismo e si apprestava a consumare un autogolpe per instaurare con la forza la dittatura comunista. Il Cile visse sull’orlo del “Golpe di Praga” che sarebbe stato tremendamente sanguinoso, e le Forze Armate non fecero altro che anticipare quel rischio imminente” (El Mercurio, 17 settembre 1973).

Non fu un’affermazione isolata del futuro Presidente del Cile. Un mese dopo, Aylwin ratificò così il suo pensiero: “La verità è che l’azione delle Forze Armate e dei Carabineros non è stata altro che una misura preventiva che anticipò un autogolpe di Stato, che con l’aiuto delle milizie armate dal potere militare di cui disponeva il Governo e con la collaborazione di non meno di diecimila stranieri presenti in questo paese, pretendevano o avrebbero instaurato una dittatura comunista” (La Prensa, 19 ottobre 1973).

È impossibile, alla luce di tutti questi antecedenti, non concludere che l’intervento militare fu il risultato di una ribellione civile davanti ad una tirannia. Questo fu legittimo ed inevitabile, dunque, come ha sostenuto Vaclav Havel, un uomo che soffrì per varie decadi la dittatura comunista nel suo paese, “il male deve essere affrontato nella culla e se non c’è nessuna altra maniera per farlo, allora bisogna farlo con l’uso della forza” (New Yorker 6 gennaio, 2003).


I fatti dimostrano allora che:

a) Il Presidente Salvador Allende fu il principale responsabile della sua propria fine, perché commise un suicidio politico dichiarandosi in rivolta contro la Costituzione della Repubblica.

b) L’allora Presidente del Senato, Eduardo Frei Montalva, fu il leader determinante della resistenza civile che si concluse con l’accusa che il governo di Allende aveva commesso venti violazioni alla Costituzione e con una chiamata all’intervento delle Forze Armate.

c) Le Forze Armate, rimuovendo il governo socialista-comunista dell’Unità Popolare, obbedirono ad un mandato morale e politico della Camera di Deputati, un braccio dello stesso Congresso che nel 1970 aveva scelto Presidente Salvador Allende.

Qualcosa di sorprendente accadde immediatamente in quella fredda notte del 22 di agosto del 1973 dopo la fine della votazione dell’Accordo. Alcuni deputati dell’opposizione cominciarono a cantare l’Inno Nazionale. E quel gesto cominciò ad essere imitato da altri fino a che tutta la Camera alla fine si alzò in piedi intonando l’inno patrio.
In quell’amore per il Cile, condiviso da tutti, sopravviveva la speranza.





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Post Scriptum. Ho scritto questo saggio come contributo alla causa che vuole che mai più si rovini la democrazia in Cile, rispetto alla quale penso di conoscere le ragioni che la distrussero e proporre per il futuro tre principi fondamentali per una convivenza civile pacifica:

a) In nessuna circostanza, senza alcuna giustificazione, ed in nessun modo, un gruppo deve propugnare, e molto meno iniziare, la violenza come meccanismo di cambiamento economico, sociale o politico sotto un regime democratico;
b) Quando inizia la violenza in qualche settore, questa deve essere stoppata immediatamente dal governo in carica, dentro la legge ma applicando tutta la forza della legge;
c) Il rifiuto di tutti coloro che propiziano ed esercitano la violenza, e l’appoggio al governo che la combatte con mano ferma, deve contare con l’appoggio unanime e deciso della società politica e della società civile.

Josè Pinera.

lunedì 11 dicembre 2006

Augusto Pinochet ? Santo subito !

Ma sì,oggi mi sento proprio provocatore, leggendo quasi dappertutto titoli di giornali che, nell'annunciare la Morte di Augusto Pinochet Ugarte, lo accusano di nefandezze di ogni sorta, dimenticando che il Presidente Cileno riuscì a sconfiggere finalmente il terrorismo che da anni insanguinava il Cile,deponendo un presidente come Allende che flirtava con il DGI cubano ed il KGB sovietico e che avrebbe portato il paese ad una dittatura comunista, con un ben più alto tributo di sangue e morti, come testimoniano i cento milioni di persone ammazzate in tutto il mondo dalla falce e martello.

E così ho voluto titolare il mio post parafrasando uno slogan per Giovanni Paolo II Magno. Che tanti sinistri,ignorando che la Pace non è il pacifismo nè tantomeno il pacifintismo, in passato hanno cercato di tirare per la giacchetta.

Ignorando che il Papa polacco ha sempre combattuto duramente certe pessime interpretazioni della Fede Cristiana, i cosiddetti teologi della liberazione, che in proprio in Cile avevano saldi legami con i terroristi della MIR, attraverso associazioni come i "Comitè pro paz".

E dimenticando i violenti attacchi che tutta la sinistra mondiale portò alla Chiesa ed al Santo Padre in occasione della Sua Visita Pastorale in Cile nell' Aprile del 1987. Senza contare le dichiarazioni di alcuni comunisti come Ariel Urrutia ed i terroristi del Fronte Manuel Rodriguez. Dimenticando l'abbraccio, a suggello di un amicizia ,tra il Papa ed il Presidente Cileno di fronte ad un milione e mezzo di cittadini festanti, non trasmesso dalle tv occidentali,che preferirono le immagini di un paio di migliaia di comunisti che,nell'immaginario dei "democratici" avrebbero dovuto rappresentare tutto il Cile.

Amicizia che il Santo Padre ribadì il 18 Febbraio 1993,in occasione della ricorrenza delle nozze d'oro dell'ormai ex-presidente ( e quindi non c'era più nessun obbligo formale),che viene allietata da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e portano in calce le firme di Papa Wojtyla e del segretario di Stato Angelo Sodano. «Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine», scrive il Sommo Pontefice, «con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»

Riposi in Pace, Presidente Pinochet: la morte l'ha strappata a chi avrebbe voluto trascinarla sui banchi dei tribunali solo per aver sconfitto il terrorismo nel Suo Paese, terroristi che rimangono tali, a differenza dell' Italia dove molti ex-terroristi non solo sono a piede libero, ma godono anche di privilegi:

Corrado Federico Alunni Fondatore Br, 58 anni, arrestato nel 1978 dopo esser passato nelle Formazioni comuniste combattenti. Nel 1980 tenta la fuga da San Vittore insieme a Vallanzasca, nel 2003 scrive un libro con altri autori (La rapina in banca, storia, teoria, pratica), da anni è fuori di galera, lavora in una coop informatica.

Vittorio Alvaro Antonini Già responsabile della colonna romana Br, coinvolto sequestro Dozier, arrestato nel 1985, è in semilibertà dal 2000. Ogni giorno entra ed esce di prigione per lavorare all'esterno. Presiede l'associazione culturale Papillon-Rebibbia promotrice della protesta che nel 2004 si è allargata a tutte le carceri d'Italia. Ha avuto l'onore di essere convocato a Montecitorio dalla commissione-giustizia per discutere dei problemi delle galere. Smentì di esser stato perquisito in cella dopo l'omicidio D'Antona.

Lauro Azzolini Membro esecutivo delle Br nel processo Moro, 62 anni, tre ergastoli, l'uomo che sparò a Montanelli, è libero. Da semilibero ha iniziato a lavorare in una coop che si occupa di non-profit, settore disabili, per la Compagnia delle Opere.

Barbara Balzerani Svariati ergastoli, ai vertici delle prime Br-Pcc, autrice del libro Compagna Luna per Feltrinelli, ha lavorato con la coop Blow Up di Trastevere specializzata nell'informatica musicale. Arrestata nel 1985 ottiene i primi permessi agli inizi degli anni Novanta.

Silvia Baraldini Condannata dalla giustizia americana a 43 anni di galera per associazione sovversiva, è uscita per motivi di salute ottenendo, il 27 dicembre 2002, una collaborazione con la giunta Veltroni. A caldeggiare il rinnovo del contratto di consulenza sul lavoro femminile, nel 2003, fu l'assessore Luigi Nieri di Rifondazione comunista. L'associazione delle vittime ha presentato denuncia in procura. Ha goduto recentemente dell' indulto.

Marco Barbone L'assassino del giornalista Walter Tobagi si è pentito ed è tornato libero. Lavora in una tipografia a Milano.

Cecco Bellosi Ex componente della colonna Walter Alasia, in manette nel 1980, condannato a 12 anni, libero nel 1989. Presiede un centro di recupero di tossicodipendenti a Nesso che collabora con l'associazione Lila.

Vittorio Bolognese Colonnello delle Br-Partito Guerriglia, è in semilibertà dal settembre 2000. Ha lavorato come operatore informatico alla coop romana Parsec dove ha trovato Pancelli, Piccinino e altri ex irriducibili.

Franco Bonisoli Brigatista del commando di via Fani, ergastolano, 13 anni di carcere, dissociato, è libero. Ha fatto il grafico in una Coop di Sesto San Giovanni, lavora in una società di servizi ambientali.

Paola Besuschio Il suo nome venne fatto dalle Br durante il sequestro Moro, era detenuta, ne volevano la liberazione in cambio del leader dc. Lavora in una cooperativa statistica.

Anna Laura Braghetti Ex compagna di Prospero Gallinari, è coinvolta nell'omicidio del giudice Vittorio Bachelet, è la carceriera di Aldo Moro in via Montalcini, nota come signora Altobelli: condannata al carcere a vita. Ha scritto alcuni libri, dal 1994 lavora tutti i giorni all'organizzazione di volontariato vicina ai Ds, Ora d'Aria che si interessa alle problematiche dei detenuti. Nel 2002 ottiene la condizionale.

Paolo Cassetta Esponente tra i più duri del partito armato, raffica di condanne alle spalle, è semilibero da un bel pezzo. Lavora stabilmente alla coop 32 dicembre, collegata al Centro Polivalente circoscrizionale intorno a cui gravitano vecchie conoscenze degli anni di piombo, come Bruno Seghetti e Cecilia Massara.

Geraldina Colotti Militante delle Ucc, ex insegnante di filosofia, ferita in un conflitto a fuoco nel gennaio del 1987, ha lavorato alla coop romana 32 dicembre, oggi è impiegata al quotidiano Il Manifesto dove lavora anche l'ex bierre Francesco Piccioni, semilibertà dal 1999.

Anna Cotone Ex bierre del feroce Partito Guerriglia, coinvolta nel sequestro dell'ex assessore dc Ciro Cirillo, arrestata nel 1982, in semilibertà da anni, lavora dal 2002 nella segreteria politica dell'europarlamentare di Rifondazione comunista, Luisa Morgantini.

Renato Curcio Fondatore e ideologo delle Br, gira l'Italia facendo conferenze in scuole, università, consigli comunali, presenta i suoi libri ai festival dei partiti. In tv, sulla berlusconiana Canale 5, è arrivato a dire che le vittime degli anni 70 sono i suoi compagni di lotta morti sul campo. Da dieci anni è a capo della coop editoriale Sensibili alle foglie che si occupa di studi sulla lotta armata, carcere e droga, tema quest'ultimo cavalcato da don Gallo, il parroco antagonista di Genova, che ha presentato il libro edito da Curcio insieme a Dario Fo. Condannato a 30 anni, ne ha scontati 24, è semilibero dal 1993.

Alessandra De Luca Anche lei brigatista nel processo Moro, è in semilibertà da tempo. È stata candidata col partito di Bertinotti alle regionali del Lazio, ma non ce l'ha fatta.

Roberto Del Bello Ex brigatista della colonna veneta, condannato a 4 anni e 7 mesi per banda armata, oggi lavora al Viminale come segretario particolare di Francesco Bonato, sottosegretario agli Interni per Rifondazione comunista.

Sergio D'Elia Dirigente di Prima linea, sconta 12 anni di carcere. Liberato e ottenuta la riabilitazione, entra nel partito radicale. Nel 2006 viene eletto alla Camera nella lista della Rosa nel Pugno e diventa segretario d'aula di Montecitorio. Fra polemiche e proteste.

Adriana Faranda Fa parte della direzione strategica delle Br, aderisce presto alla dissociazione guadagnando la libertà. Viene rilasciata nel 1990 e affidata all'opera di don Calabria dove lavora al computer. Scrive libri, ha fatto la fotografa. Finisce al Costanzo Show, e sono polemiche infinite.

Diego Fornasieri Insieme ad altri ex detenuti è attivo nel non-profit attraverso la cooperativa sociale di prodotti biologici Arete. Guerrigliero di Prima linea, incassa una condanna a 30 anni nel 1983. Libero.

Alberto Franceschini Fondatore con Curcio delle Brigate rosse, nel 1983 si dissocia. Oggi lavora a Roma con la Braghetti all'associazione per detenuti Ora d'Aria. Condannato a più di 50 anni di galera, esce dal penitenziario nel 1992 dopo 17 anni di reclusione. Scrive libri, partecipa a conferenze.

Prospero Gallinari Membro del commando che sparò alla scorta di Moro in via Fani, responsabile della prigione del popolo, è libero da tantissimi anni per problemi di cuore.

Claudia Gioia Primula rossa delle Unità Comuniste Combattenti subisce una sentenza a 28 anni di prigione per il delitto del generale Giorgieri e per il ferimento dell'economista Da Empoli. È in libertà condizionale dal gennaio 2005. Nel 1991 finisce intercettata mentre parla, in cella, col br Melorio di un tentativo di ricostituzione delle Ucc.

Eugenio Pio Ghignoni Brigatista coinvolto e condannato nel processo Moro, è il responsabile della Direzione Affari Generali dell'Università Roma Tre, cura la sicurezza...

Maurizio Jannelli Già capocolonna romano delle Br, ergastolo per vari crimini (tra cui la strage di via Fani) ha lavorato alla Rai come autore a partire dal 1999. Per il Tg3 ha seguito Il mestiere di vivere, Diario Italiano, Residence Bastogi, fa parte dello staff della trasmissione sportiva Sfide. Ha scritto Princesa, libro su un transessuale suicida. Dal 2003 è in condizionale.

Natalia Ligas Nome di battaglia Angela, la dura delle Br-Partito Guerriglia che partecipò al massacro di piazza Nicosia a Roma, ergastolana, permessi premio a partire dal 1998, dal 2000 è semi-libera nonostante non si sia mai dissociata.

Maurizio Locusta Partecipa al delitto Giorgieri (24 anni di pena), viene estradato dalla Francia nel marzo 1988, dopo qualche anno esce ed è assunto alla fondazione Lelio Basso-Issoco come assistente di sala consultazione.

Francesco Maietta Ex militante delle Ucc, condanne pesantissime, lavora part time in un ente importante dal 1990. Si è sposato nel 1998 a Ostia con una ragazza della Caritas. Tra gli invitati, il presidente emerito Francesco Cossiga.

Corrado Marcetti Ex di Prima linea, oggi è direttore della Fondazione Michelucci a Fiesole.

Nadia Mantovani Dissociata, condannata a 20 anni per appartenenza alle Br, ottiene la condizionale a gennaio '93 quando sconta due terzi della pena. Ex fidanzata di Renato Curcio, è tra le fondatrici dell'associazione per il reinserimento dei detenuti Verso Casa. Il 23 agosto 2004 la sua performance sugli anni di piombo al meeting di Rimini ha riscosso molto successo tra il pubblico di Cl.

Mario Moretti Il numero uno delle Br, leader della direzione strategica, partecipa al sequestro Moro, dopo 17 anni di carcere, 9 di clandestinità e 6 ergastoli, nel 1994 ottiene il permesso di andare alla Scala. Una volta fuori, in lavoro esterno, si occupa di volontariato. Esperto di informatica partecipa alla fondazione della Cooperativa Spes composta da ex irriducibili dissociati. La coop ottiene vari contributi, anche dalla Regione Lombardia, insieme all'associazione Geometrie variabili cerca forme di lavoro non alienanti per i detenuti. Scrive libri.

Valerio Morucci L'ex postino delle Br durante i 55 giorni del caso Moro, scontati 17 anni di prigione, dissociato, è libero. Autore di libri di successo (l'ultimo, La peggio gioventù) vincitori di premi letterari con Il collezionista (la VI edizione di Esperienze in giallo) lavora come consulente informatico.

Roberto Ognibene Gode dei benefici dovuti alla legge sui dissociati e lavora come impiegato al Comune di Bologna.

Ave Maria Petricola Quest'anno la Provincia di Roma ha assunto quest'ex pentita brigatista, nome ricorrente al processo Moro, come responsabile del centro di Torre Angela, VII municipio della Capitale, che trova lavoro ai disoccupati. Amnistiata nel 1987, nel 2004 la ritroviamo nella lista degli assistenti sociali regionali.

Remo Pancelli Killer dell'ala militarista delle Br Colonna 28 marzo, l'ex dipendente delle Poste del sequestro D'Urso, viene bloccato dai carabinieri il 7 giugno del 1982. Pluricondannato, è inserito in una coop sociale (che ha ospitato altri ex terroristi rossi).

Marco Pinna Soldato della colonna sarda delle Br, è vicepresidente della coop ambientale Ecotopia.

Susanna Ronconi Storica figura del troncone toscano di Prima Linea, lavora al Gruppo Abele di Torino dove ha la responsabilità delle cosiddette Unità di strada. Nel 1987 guadagna il primo permesso-premio per la sua dissociazione. È stata consulente di Asl e Comuni del nord Italia, collabora alla pubblicazione del Rapporto sui diritti globali a cura dell'associazione Informazione&Società per la Cgil Nazionale. Un'interrogazione di Gasparri (An) e Giovanardi (Ccd) la segnalano come beneficiaria di una consulenza da parte dell'allora ministro Livia Turco.

Giovanni Senzani Il criminologo delle Br-Partito Guerriglia, irriducibile fino al midollo, già sospettato di essere il Grande Vecchio del sequestro Moro, ergastolano per l'omicidio del fratello del pentito Patrizio Peci, esce nel 1999 in semilibertà ma un anno dopo è dietro la scrivania di un centro di documentazione della Regione Toscana denominato Cultura della legalità democratica e inserito nel progetto Informacarcere. Nel 2001 si è scoperto che il centro poteva clonare tutti gli atti, anche quelli segreti, della commissione parlamentare sulle stragi. È coordinatore della casa editrice di sinistra Edizioni Battaglia.

Marco Solimano Ex di Prima linea, oggi è consigliere dei Ds al Comune di Livorno. Da circa dieci anni è assistente volontario al carcere di Livorno come responsabile Arci.

Nicola Solimano Ex di Prima linea, condannato a 22 anni lavora alla Fondazione Michelucci di Fiesole, costituita nel 1982 dalla Regione Toscana e dai Comuni di Pistoia e Fiesole. È stato consulente della Regione Toscana per la nuova legge a tutela dei popoli Rom e Sinti e fra i coordinatori di un campus internazionale nell'ambito dell'iniziativa regionale Porto Franco, per conto dell'Assessorato alla cultura della Regione.

(fonte: "Il Giornale del 4 Novembre 2006)