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mercoledì 13 dicembre 2006

11 Settembre 1973:parla Josè Pinera,un Liberale.

Dopo le polemiche del post precedente,che hanno scatenato i soliti antifascisti di professione che si sentono detentori della verità assoluta imposta dalla sinistra più becera,vorrei far raccontare quei giorni a Josè Pinera, Liberale Vero,Laureato in Economia ad Harvard, facente parte del gruppo di Liberali (Veri) che lavorò al progetto economico cileno e che divenne Ministro del Lavoro dal 1978 al 1980 e padre della riforma delle Pensioni e della Previdenza Sociale cilena.

Un economista stimato in tutto il mondo, non certo un Fascista, che ci da' una versione dei fatti che collima con quella espressa nelle 600 pagine del libro di Spataro.

Ma credo che neanche davanti a questo scritto gli antifascisti di professione ed i pacifinti riusciranno a comprendere la complessità di quei giorni che portarono Augusto Pinochet a dover prendere le redini di un Cile sull'orlo del baratro.

Non vanno al di la' dei loro eterni limiti, e così come Peppone ai tempi si grattava la testa davanti a quello che non capiva,ma si adeguava, continueranno ad adeguarsi nonostante le centinaia di migliaia di Cileni che in questi giorni hanno tributato gli ultimi onori al Presidente Augusto Pinochet.

Mercoledì 22 agosto 1973, il plenum della Camera di Deputati si riunì a mezzogiorno per “analizzare la situazione politica e legale che colpisce il paese”. Incominciando la sessione, i gruppi parlamentari dei Deputati del Partito Democratico Cristiano (PDC) e del Partito Nazionale (PN) presentarono un progetto di Accordo che avrebbe cambiato il corso della storia del Cile.

Il primo oratore fu il deputato del PDC Claudio Orrego il quale, nel suo discorso di presentazione del progetto di Accordo, affermò che “il paese sta soffrendo attualmente una crisi che non ha paragone nella nostra storia patria, durante centosessanta anni e tanti anni di vita indipendente.... Fino a questo momento la crisi non si risolve; al contrario, si acutizza giorno per giorno. Per questo motivo, noi, oggi, in questo consesso e di fronte al Cile, vogliamo dire che è arrivata l’ora, che è arrivato il momento per dire un’altra volta responsabilmente la nostra verità davanti al paese e davanti alla storia, perché il Congresso (leggi Parlamento, ndr) non può continuare a tacere la grave situazione che attraversa il Cile e deve avanzare un giudizio globale su di essa, perché la situazione di illegalità riguarda oltraggi reiterati alle risoluzioni del Congresso Nazionale, nonché oltraggi reiterati alle attribuzioni del Potere Giudiziario, ed ancora oltraggi reiterati alle facoltà dell’Organo di controllo generale della Repubblica (Contralorìa General de la Repubblica, ndr) e oltraggi reiterati ai diritti dei cittadini, ai mezzi di comunicazione dei cileni, e perfino, in alcuni casi, alla libertà delle persone.... Con questo quadro, signor Presidente, non bastano soluzioni parziali. Dentro questo quadro, quando un paese si sgretola, non bastano piccole manovre di politica sovrastrutturale. Qui bisogna risolvere i problemi di fondo” (Claudio Orrego V., Per una pace stabile tra i cileni, edizione privata dell’autore, 1974).

Il deputato Orrego affermò anche che il Presidente Salvador Allende non stava rispettando lo Statuto di Garanzie Democratiche che aveva fatto possibile la sua elezione. Questo elenco di diritti individuali era stato incorporato alla Costituzione nel 1970 come condizione affinché la Democrazia Cristiana votasse Allende come presidente, dato che quell’anno lui, candidato socialista, aveva ottenuto solo il 36,2 per cento del voto popolare e, pertanto, il Congresso poteva scegliere alla presidenza chiunque tra le due altre formazioni di maggioranza relativa. Più tardi, infatti, Allende avrebbe riconosciuto di aver firmato quello Statuto ma solo come una manovra “tattica”, (Regis Debray, The Chilean Revolution: Conversations with Allende, 1971).

Dopo l’intervento di un altro rappresentante del PDC, prese la parola il deputato del PN Hermógenes Pérez de Arce, che affermò che l’Accordo dimostrava che “il Potere Esecutivo aveva smesso di rispettare la Costituzione e la Legge, il che ha dato luogo all’illegittimità del mandato e all’esercizio del potere del Presidente della Repubblica”.

Dopo altri due deputati nazionali, intervenne il deputato Luis Maira della coalizione di partiti di governo chiamata Unità Popolare. Non negò le gravi accuse che faceva il progetto di Accordo e cercò di giustificare la condotta del governo sostenendo “che il problema di fondo non è altro che lo Stato di Diritto e la sua giusta correlazione con le trasformazioni economiche indispensabili”.

La sessione della mattina terminò con un focoso discorso del deputato Juan Luis Ossa, presidente della gioventù del PN. Nei paraggi dell’edificio in cui risiedeva il Congresso erano accaduti il giorno precedente gravi incidenti. Il deputato Ossa, attaccato da gruppi armati, si era visto obbligato a difendersi con un’arma da fuoco, affermando alla stampa che gli avevano sparato contro perfino con armi automatiche. La polizia non aveva agito in difesa dei giovani del suo partito. Esasperato per questo incidente, attaccò i deputati comunisti: “Per quel motivo voi, banda di traditori, banda di codardi, banda di venduti, banda di bugiardi e ipocriti, siete delegittimati dal parlare di guerra civile".
Quello era il clima che si viveva in Cile quel giorno di agosto.

Alle due e 13 minuti del pomeriggio si interruppe il dibattito. Nel mondo ispano, neanche temi così gravi e scottanti meritano il salto dell’ora del pranzo.

La sessione del pomeriggio, convocata per votare il progetto di Accordo, cominciò alle otto di sera. Ma ci fu una sorpresa. Dopo un breve dibattito, la Camera si costituì in sessione segreta su richiesta di Jorge Insunza ed il pubblico seduto in tribuna dovette abbandonare l’aula. In quella sessione, il deputato comunista pronunciò un discorso minaccioso sostenendo che, se si approvava il progetto di Accordo, forze straniere avrebbero invaso immediatamente il paese.

Al ritorno in seduta pubblica, si procedette immediatamente a votare. Una volta fatto lo scrutinio, il Presidente della Camera dei Deputati alzò la voce e dichiarò approvato per 81 voti contro 47 l’Accordo sottoposto a votazione. Alle 21 e 49 minuti si sciolse la seduta.

Il giorno dopo, 23 agosto, “El Mercurio” titolò così a tutta tutta pagina: “Ha deciso l’Accordo della Camera di Deputati: IL GOVERNO HA VIOLATO GRAVEMENTE LA COSTITUZIONE”.

Il testo dell’Accordo fu pubblicato integralmente quello stesso giorno da “El Mercurio”. I Verbali ufficiali della sessione che fu presieduta dal deputato del PDC Luis Pareto e quello del PN Gustavo Lorca, rispettivamente presidente e vicepresidente della Camera, fu pubblicata il 25 agosto dal quotidiano governativo “La Nacion”.

L’Accordo, approvato da quasi due terzi dei deputati, ovvero il 63.3 per cento dell’assemblea, accusava il governo del Presidente Allende di venti violazioni concrete alla Costituzione e alle leggi, tra le quali anche la protezione di gruppi armati, le torture, e il fermo illegale dei cittadini, o ancora l’imbavagliare la stampa, il manipolare l’educazione, il limitare la possibilità di uscire dal paese, il confiscare la proprietà privata, il formare organismi sediziosi, il violare le attribuzioni del Potere giudiziale, il Congresso e il Controllore Generale della Repubblica, e tutto ciò in maniera sistematica e col fine di instaurare in Cile “un sistema totalitario”, cioè, una dittatura comunista.

Fu un fatto straordinario che l’Accordo della Camera sia stato approvato da tutti i deputati del PDC, il partito maggioritario il cui leader indiscusso era il Presidente del Senato ed ex Presidente della Repubblica Eduardo Frey Montalva, dato che solo tre anni prima, il 24 ottobre del 1970, quello stesso partito aveva contribuito con tutti i suoi voti a nominare Presidente Salvador Allende nella sessione plenaria del Congresso.

Per John Locke, il grande pensatore inglese, la tirannia è “l’esercizio del potere oltre la legge”. Quando compare un tiranno, è lui che ha collocato il paese in stato di guerra oltrepassando i limiti del suo potere, cioè, si è “ribellato” (“re-bellare”, proviene dal latino “bellum” che significa guerra).
L’essenza dell’Accordo della Camera di Deputati insomma è l’accusa che il Congresso ha mosso al Presidente Allende che, nonostante fosse stato scelto democraticamente, si era ribellato contro la Costituzione e, pertanto, si era convertito in un “tiranno”.


Venti violazioni ed una chiamata disperata

L’Accordo della Camera di Deputati costituisce un vero “Accordo contro la Tirannia”. Ha 15 articoli e può riassumersi concettualmente nel seguente modo:

a) Un preambolo contenuto negli articoli dall’1 al 4 che enuncia le conosciute condizioni essenziali che devono darsi affinché esista un Stato di Diritto. Contiene un’avvertenza carica di significato (“un governo che si arroghi diritti che il popolo non gli ha concesso incorre in sedizione”), e ricorda che il Presidente Allende non fu scelto grazie alla maggioranza del voto popolare bensì dal Congresso Pieno, “previo accordo intorno ad un Statuto di garanzie democratiche incorporato alla Costituzione Politica”.

b) Venti accuse di violazioni alla Costituzione e alle leggi: un’accusa generica contenuta negli articoli 5 e 6, dieci su violazioni concrete a determinati diritti umani che sono enumerate dentro l’articolo 10, sette su violazioni alla separazione di poteri negli articoli 7, 8 e 9, e finalmente due su azioni di carattere sedizioso negli articoli 11 e 12. Questo elenco ha una struttura simile alla serie di accuse contro re Giorgio III ai tempi della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America.

c) Una precisione sul ruolo dei ministri militari che il Presidente Allende aveva incluso in posti chiave del suo gabinetto(Art. 13 e 14). Bisogna chiarire subito che lo stesso Presidente Allende aveva aperto le porte della politica ai militare conferendo, un anno prima, a vari generali ed ammiragli i ministeri chiave. Per alcuni mesi conferì perfino l’incarico politico di maggiore importanza e peso, il Ministero dell’Interno, al Comandante in Capo dell’Esercito, il generale Carlos Prats. Nell’agosto del 1973, un ammiraglio era Ministro delle Finanze, un ruolo chiave nella conduzione economica del paese.

d) Una chiamata al Presidente della Repubblica ed ai ministri membri delle Forze armate, Art.15, a mettere “immediatamente termine” a queste gravi violazioni alla Costituzione.

Il 23 agosto un messaggero della Camera consegnò nel palazzo presidenziale denominato “La Moneda” una busta diretta al Primo Mandatario col testo dell’Accordo votato la notte anteriore.
Il giorno dopo, giovedì, 24, il Presidente Allende rendeva pubblica una lettera diretta al paese. Nella quale sosteneva: “L’altro ieri, i deputati di opposizione hanno esortato formalmente le Forze armate e i Carabineros a che assumano una posizione deliberante di fronte al Governo.... Chiedere a Forze armate e Carabineros che portino a termine funzioni di governo al di fuori dell’autorità è competenza politica del Presidente della Repubblica, significa promuovere un colpo di Stato”.

Allende accusò la maggioranza dei deputati di volerlo rimuovere dall’incarico senza un’accusa costituzionale formale, ed aveva ragione. Proprio per quel motivo la Camera realizzò una “chiamata” all’intervento dei ministri militari, ed ovviamente attraverso essi alle Forze armate, perché la strada strettamente giuridica per rimuovere il Presidente era impossibile.

In effetti, la rimozione del Presidente, come previsto dall’articolo 42 della Costituzione promulgata nel 1925, esigeva per allontanare il Presidente i due terzi dei senatori in esercizio. Dato che il Senato si rinnovava parzialmente durante il mandato governativo, era virtualmente impossibile che un Presidente, per impopolare che fosse, perdesse così marcatamente le elezioni parlamentari durante il suo periodo al punto tale da rimanere senza l’appoggio di almeno un terzo dei senatori. Di fatto, l’opposizione al Presidente Allende vinse con una maggioranza assoluta le elezioni parlamentari del marzo del 1973, ottenendo quasi due terzi della Camera di Deputati, ma non la stessa maggioranza al Senato. In sintesi, la Costituzione di 1925 permetteva che un governo la violasse, perfino “sistematicamente” come sostenne un’ampia maggioranza dei deputati di allora, fino a quando quel governo poteva garantire al suo fianco un terzo dei senatori.

È emblematica la confusione su ciò che significa lo Stato di Diritto come dimostra la lettera di risposta di Allende, dato che dichiara che avrebbe insistito sulla sua strada illegale perché “dietro l’espressione ‘Stato di Diritto’ si nasconde una situazione che presuppone un’ingiustizia economica e sociale tra cileni che il nostro paese ha respinto. Pretendono di ignorare che lo Stato di Diritto si realizza solo pienamente nella misura in cui si superino le disuguaglianze di una società capitalista”.
Questa dichiarazione è assonante con quella che aveva dato il suo Ministro di Giustizia il 1° Luglio 1972: “La rivoluzione si manterrà dentro il diritto finché il diritto non pretende di frenare la rivoluzione”.

Le ragioni del testo dell’Accordo sono state spiegate da Claudio Orrego in questa maniera: “Il Presidente della Democrazia Cristiana, senatore Patricio Aylwin, mi raccomandò il compito di preparare il progetto di accordo. Mi sollecitò che parlassi col senatore Juan Hamilton... il quale mi informò che i parlamentari del Partito Nazionale avevano una brutta copia di dichiarazione che poteva risparmiarci molto lavoro. Presi contatto, allora, col senatore Sergio Diez e col deputato Mario Arnello chi mi diedero una copia del suo lavoro. Dopo avere analizzato detto documento, mi sembrò che contenesse molto materiale e che era molto ben fatto.... Una volta finito il lavoro - del quale conservo l’originale – lo trasmisi al senatore Aylwin affinché l’approvasse il Direttivo del PDC. Questi procedette col redigere nuovamente le conclusioni, nella forma in cui furono definitivamente proposte dalla Camera. Lo stesso giorno, il 22 di agosto, in mattinata, rividi il testo definitivo con Patrizio Aylwin e mi diressi al Congresso per presentarlo.... Quella è la relazione vera dell’Accordo voluto dalla Camera dei Deputati. La storia giudicherà la sua importanza e la sua opportunità” (da una lettera spedita a La Segunda il 26 marzo 1980).

Secondo Hermógenes Pérez de Arce, la prima brutta copia dell’Accordo la redasse il giurista Enrique Ortúzar e la rivide il senatore del PN Francisco Bulnes, ma anche lui stesso partecipò ad una riunione in merito al documento. Ciò è coerente con la versione di Orrego che segnala che la redazione finale del testo si basò su un lavoro “molto ben fatto” che gli consegnarono parlamentari del PN. Tutto indica allora che si tratta dello stesso testo, il quale fu arricchito da diverse persone del PN e del PDC alla ricerca di una copia finale che soddisfacesse tutti e così assicurasse la votazione unanime dei deputati di entrambi i partiti.


L’opzione della violenza politica

Come si spiega che un Presidente che arrivò al potere attraverso un’elezione democratica eserciti poi il suo potere contro la stessa Costituzione e le stesse leggi che gli permisero di raggiungere la più alta carica politica della Repubblica? Perché un governo eletto democraticamente considerò necessario incorrere in venti violazioni della Costituzione?

La risposta sta nel fatto che una rivoluzione comunista-socialista che cerca di stabilire quello che la sua stessa dottrina ha denominato “la dittatura del proletariato”, per definizione non si può fare nei limiti della Costituzione e della legge di una repubblica democratica.

Una cosa è per un dirigente marxista trasformarsi in presidente democratico di un paese ottenendo il 36,2 percento della votazione, contando sull’accettazione di un Congresso quando a questo gli corrisponde l’elezione finale, ed un’altra cosa, molto diversa, è acquisire la totalità del potere necessario per abolire la democrazia e stabilire un sistema totalitario. Per ciò si richiedeva una maggioranza opprimente per poter realizzare le modificazioni necessarie alla Carta Fondamentale. Ciò non è mai successo nella storia dell’umanità, perché tutti i regimi hanno raggiunto il potere totale attraverso la violenza.

E’ un errore attribuire la rottura cilena alla poca pazienza di uno dei partiti della sinistra marxista all’interno della coalizione, o ad una riunione sediziosa di alcuni deputati con dei marinai in una nave militare, o perfino ad un discorso delirante in un stadio richiamando alla “insurrezione delle masse”. Questi fatti che sì accaddero, possono essere stati detonanti, ma la causa profonda fu un’ideologia ed una prassi, tanto sistematica quanto implacabile che concepiva la violenza come “la levatrice della storia”.

Sono determinanti per comprendere l’origine della rottura democratica i due accordi ufficiali del Partito Socialista del Cile adottati, all’unanimità, nei suoi Congressi annuali del 1965 e del 1967.
Già nel suo Congresso di Linares (Luglio 1965) il Partito Socialista del Cile che si definiva marxista-leninista, aveva sostenuto la cosa seguente: “La nostra strategia scarta in realtà la via elettorale come metodo per raggiungere il nostro obiettivo di presa del potere.... Il partito ha un obiettivo: per raggiungerlo dovrà usare i metodi ed i mezzi che la lotta rivoluzionaria renda necessari”.

Ma fu nel suo Congresso di Chillán quando la posizione sediziosa raggiunse la sua massima espressione. Ciò ebbe luogo tra il 24 ed il 26 novembre 1967 ed assisterono 115 delegati, e parteciparono anche molti “delegati fraterni” dei governi comunisti dell’URSS, della Germania Orientale, della Romania della Yugoslavia, del partito Baath socialista siriano e del partito socialista dell’Uruguay.

La risoluzione adottata affermava che “la violenza rivoluzionaria è inevitabile e legittima.... Costituisce l’unica via che conduce alla presa del potere politico ed economico, e la sua ulteriore difesa e rinvigorimento. Solo distruggendo l’apparato democratico-militare dello Stato borghese può consolidarsi la rivoluzione socialista.... Le forme pacifiche o legali di lotta non conducono per loro stesse al potere. Il Partito Socialista li considera come strumenti limitati di azione incorporati al processo politico che ci porta alla lotta armata. La politica del fronte dei lavoratori si prolunga e si sente contenuta nella politica dell’Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà (OLAS), quella che riflette la nuova dimensione continentale, ed armata, che ha acquisito il processo rivoluzionario latinoamericano” (Julio César Jobet, La Storia del Partito Socialista del Cile, 1997).

L’ideologo del Partito Socialista, e futuro Ministro degli Esteri del Presidente Allende, Clodomiro Almeyda, avanzò osservazioni sul modo in cui sarebbe finito il processo in corso: “La forma fondamentale che in un paese come il Cile possa assumere la fase superiore della lotta politica, quando il processo vigente arrivi a collocare all’ordine del giorno il problema del potere, è imprevedibile in termini assoluti. Io propendo a credere che è più probabile che prenda la forma di una guerra civile rivoluzianaria, alla maniera spagnola, con intervento straniero, ma di corso più rapido ed acuto” (Rivista Punto Final, 22 novembre di 1967).

Val la pena notare che il Partito Socialista era il secondo di maggiore grandezza del paese ed era il principale partito nella coalizione, l’Unità Popolare che governò il Cile tra il 1970 e il 1973, e che Salvador Allende era il suo più agguerrito militante. Il suo partito alleato, il Partito Comunista del Cile, era il maggiore e migliore organizzato di tutti i Partiti Comunisti dell’America Latina, ed il terzo in in grandezza, dopo quelli della Francia e dell’Italia, di tutto il mondo occidentale insomma.
Per certo, tutto questo succedeva nel contesto della Guerra Fredda, nella quale il governo dell’Unità Popolare si era alleato con l’Unione Sovietica contro gli Stati Uniti e l’Europa democratica.
Probabilmente senza avere mai letto George Orwell, Allende chiamò la superpotenza comunista il “fratello maggiore” del Cile, in un discorso tenuto al Cremlino il 7 dicembre del 1972, nel quale affermò, dopo essersi riunito coi massimi gerarchi sovietici Leonid Brezhnev, Alexei Kosygin e Nikolai Podgorny, che aveva raggiunto una “completa identità di punti di vista” coi dirigenti comunisti.
Questa adesione ai regimi comunisti veniva da molto prima. Dai tempi dell’omaggio a Stalin a Santiago, una settimana dopo la sua morte, nel marzo del 1953, dove uno degli oratori principali fu il socialista Salvador Allende.

È bene ricordare anche l’incredibile omaggio a Stalin dell’importante dirigente comunista cileno Volodia Teitelboim: “Oggi dorme la sua gloria eterna nella camera ardente della Sala delle Colonne di Mosca il camerata José Stalin. E’ da un solo giorno e qualche ora che è morto l’amato conduttore dei lavoratori del mondo, il più grande, profondo e nobile amico dell’umanità.... è morto il padre ed il capo di tutta l’umanità progressista. È morto, come Mayakovsky diceva di Lenin, il più umano di tutti gli uomini.... Diede abbondanza ed esistenza felice al suo paese. Sotto la bandiera di lutto, ma sempre spiegata di Stalin, i paesi vanno per la strada più breve verso la sicura vittoria, verso il mondo della felicità umana” (El Siglo, marzo di 1953).

Nella decade degli anni ‘60, Allende accettò servire come presidente dell’Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà (OLAS), un organismo castrista per esportare la rivoluzione comunista al continente, quella che aveva affermato pubblicamente che “la rivoluzione armata è l’unica soluzione per i mali sociali ed economici dell’America latina”.

Claudio Véliz, storiografo ed amico personale di Allende, sostiene che i viaggi di Allende a Cuba ebbero “un’incidenza fondamentale nel progetto che pretendeva di applicare in Cile. Dopo aver visto Cuba, Allende pensò che poteva accorciare la strada. Ma la verità è che si allontanò dalla tradizione cilena.... non c’è nessun dubbio che il governo dell’Unità Popolare fu un disastro che ci portò alla guerra civile” (El Mercurio, 28 novembre, 1999).

Allende, essendo presidente del Senato, espresse in vari episodi il suo appoggio al Movimento di Sinistra Rivoluzionaria (MIR), gruppo che iniziò la violenza guerrigliera in Cile. Per certo, la violenza era stata idealizzata dai leader di sinistra del Cile e del continente per un lungo tempo.

Infine, i dirigenti marxisti cileni non seppero resistere l’incantesimo della Rivoluzione comunista cubana. Il tiranno dei Caraibi, Fidel Castro, si trasformò nel modello e furono intossicati, come se fossero adolescenti, per la retorica e l’azione rivoluzionaria del Che Guevara, il quale pretendeva creare “molteplici Vietnam” in America Latina.

Una distinzione fondamentale che non si fece fu quella tra il nobile obiettivo di volere cambiare il mondo in meglio e cercare di farlo utilizzando la violenza. Nel nostro paese esisteva, agli inizi degli Anni ’70, troppa povertà, sottosviluppo, monopoli ed ingiustizie di distinta natura, per evitare che molte persone idealiste, specialmente i giovani, non si dichiarassero in stato di disubbidienza e cercassero, benché con più passione che rigore, una strada per creare un mondo migliore. Basta leggere il “Bilancio Patriottico” di Vicente Huidobro, edito nel 1925, per dimostrare che non molto era cambiato in cinquanta anni.

Quello che è aberrante è che tanti dirigenti comunisti e socialisti cileni, dai quali ci si attendeva un minimo di maturità e responsabilità politica, spingessero, inizialmente con la retorica incendiaria, e più tardi coi loro atti di governo, decine di migliaia di giovani verso l’bisso - ed alle conseguenze - della violenza politica.

In questo contesto, è commovente l’onesta confessione di un ex guerrigliero argentino: “Oggi posso affermare che per fortuna non ottenemmo la vittoria, perché se fosse stato così, tenedo in conto sia la nostra formazione che il grado di dipendenza da Cuba, avremmo soffocato il continente in una barbarie generalizzata. Una delle nostre consegne era fare della cordigliera delle Ande la Sierra Maestra dell’America Latina, dove, prima avremmo fucilato i militari, dopo gli oppositori, e dopo ancora i compagni che si fossero opposti al nostro autoritarismo” (Jorge Masetti, Il Furore ed il Delirio, 1999).


Alle soglie della guerra civile

La risposta del Presidente Allende all’Accordo votato dalla Camera non fu l’unica nella quale dimostrò il suo disprezzo per lo Stato di Diritto. Durante il 1973 la Corte Suprema gli aveva rimproverato di aver esautorato le attribuzioni proprie di quel’istituzione, il che portò ad una violenta disputa epistolare tra essi. Ovviamente, perfino l’Unità Popolare aveva sviluppato l’insolita teoria giuridica degli “spiragli legali”, grazie alla quale non solo aveva fatto progredire l’interventismo statale in multiple imprese private di ogni grandezza, ma stava erodendo in maniera fatale la necessaria fiducia pubblica nelle istituzioni fondamentali della Repubblica.

Così, il 26 maggio del 1973, per protesta contro un parere negativo del governo a compiere una decisione giudiziale, la Corte Suprema decise all’unanimità di rivolgersi così al Presidente della Repubblica: “Questa Corte Suprema si vede obbligata a sottoporre a Sua Eccellenza per l’ennesima volta l’atteggiamento illecito dell’autorità amministrativa nella sua interferenza illegale in temi giudiziali, nel tentativo di ostacolare la polizia nell’esecuzione di ordini dei tribunali; ordini che, sotto le leggi vigenti, devono essere portati a capo per detta forza poliziesca senza ostacoli di nessun tipo; tutto ciò implica un disprezzo aperto e volontario delle sentenze giudiziali, con completa ignoranza rispetto alle alterazioni che tali atteggiamenti od omissioni producono nell’ordine legale; come si scrisse a Sua Eccellenza in un dispaccio precedente, si tratta di atteggiamenti che implicano non solo la crisi nello Stato di Diritto, ma anche la rottura perentoria o imminente della legalità della Nazione”.

Allende, in un discorso pubblico pochi giorni dopo, rispose con un’affermazione che gli sarebbe costata l’immediata destituzione dal suo incarico in qualunque paese di lunga tradizione democratica: “In un periodo di rivoluzione, il potere politico ha diritto di decidere in ultima istanza se le decisioni giudiziali non concordano con le alte mete e necessità storiche di trasformazione della società, quelle che devono avere assoluta precedenza su qualunque altra considerazione; come conseguenza, l’esecutivo ha il diritto di decidere se portare a termine o no le sentenze della Giustizia”.

Val la pena notare che, il giorno dopo l’Accordo della Camera, il 23 agosto, la Corte Suprema adottò un’altra risoluzione denunciando nuovamente i tentativi del governo di calpestare l’indipendenza del Potere Giudiziario.

A metà del 1973, l’esercizio antidemocratico del potere da parte del Presidente Allende e dei suoi ministri aveva condotto, insomma, non solo ad un aperto conflitto costituzionale tra il Presidente della Repubblica ed il Potere Legislativo, ma anche ad un grave scontro tra questo Presidente ed il Potere Giudiziario.
A questo punto, è opportuno precisare che, benché la crescente crisi economica - inflazione annuale attorno al 300 per cento, razionamenti, crisi della bilancia dei pagamenti, disoccupazione in aumento, sfiducia - produceva miseria ed angosce generalizzate e creava una scatola di risonanza per questi conflitti istituzionali, ma questo non era l’argomento valido per rimuovere il governo.
Come il paese era arrivato ad essere “un campo armato”, il che preoccupava oltremodo le Forze Armate, bisognava essere ciechi per ignorare che, durante l’inverno del 1973 (in Cile l’inverno corrisponde all’estate europea, ndr), il Cile era caduto in un stato di guerra civile (Due libri importanti e complementari che dimostrano questa realtà sono quelli di Paul Sigmund, The Overthrow of Allende, e di James Wheelan, Dalle Ceneri.

Óscar Waiss che fu direttore del quotidiano ufficiale del governo ed intimo amico di Allende, esponendo alcuni scenari possibili rifletté il grado di estremismo che prevaleva in alcuni dirigenti dell’Unità Popolare: “Era arrivato il momento di gettare il feticismo legalista in un fosso; il momento di giubilare i militari cospiratori; di destituire il Controllore Generale della Repubblica; di intervenire sulla Corte Suprema di Giustizia e sul Potere Giudiziario; di pignorare “El Mercurio” e tutta la banda giornalistica controrivoluzionaria. Risultava meglio dare il primo colpo, perché chi picchia per primo picchia due volte”, (Rivista ‘Politico Internazionale’ Nº 600, Belgrado, aprile 1975).

A dispetto della sua chiara responsabilità nell’introduzione della violenza politica in Cile, sembra altamente improbabile che il Presidente Allende sarebbe stato disposto a lavorare con la stessa immoralità estrema dei dirigenti bolscevichi che realizzarono la sanguinaria Rivoluzione d’Ottobre in Russia.

Ma, grazie a Dio, non si potrà mai rispondere alla domanda: Chi, dentro l’Unità Popolare, sarebbe stato il Lenin cileno?


Frei inclina la bilancia

Salvador Allende arrivò alla presidenza dopo il fallimento dei governi di Jorge Alessandri (1958-1964) e di Eduardo Frei Montalva (1964-1970).

Entrambi i governi furono incapaci di cambiare la fallimentare strategia di sviluppo, che generava una crescita economica tanto mediocre che rendeva impossibile sconfiggere la miseria e creare un orizzonte di prosperità per tutti i cileni, ed ambedue aprirono la strada verso la violazione del diritto di proprietà, fondamento essenziale di una società libera. Questa relazione indissolubile, concettuale e storica, tra proprietà e libertà l’ha ben dimostrata Richard Pipes nel suo libro Property and Freedom (1999).

Óscar Godoy, Direttore dell’Istituto di Scienza Politica dell’Università Cattolica, sostiene che “la responsabilità dei partiti di destra nell’arrivo al governo dell’Unità Popolare fu che non seppero difendere opportunamente e con vigore le istituzioni dello Stato liberale. Per esempio, la difesa che si fece del diritto di proprietà fu minima, perché venne attaccata sistematicamente. Quando la destra ha la possibilità di recuperare, con Jorge Alessandri, si manifesta impotente di fronte alla novità della Democrazia Cristiana e del socialismo ed evidenzia la sua debolezza. È deplorevole la scarsità di uomini pubblici nella destra disposti a difendere i suoi progetti con lo stesso vigore con cui i socialisti difendevano i loro. La campagna di Jorge Alessandri fa concessioni multiple per occultare la vera natura del progetto liberale. In quel tempo c’era paura di pronunciare le parole mercato, concorrenza, individualismo, ecc. Da cui ne derivò un certo zoppicamento che rese la destra molto debole”(La Epoca, 4 settembre di 1995).

L’indebolimento del diritto di proprietà in Cile cominciò, in effetti, con la riforma costituzionale propiziata dal governo del Presidente Alessandri con la scusa di iniziare la Riforma Agraria. Furono profetiche, benché non ascolate, le avvertenze dell’ex presidente della Società Nazionale di Agricoltura, Recaredo Ossa: “La rottura di queste garanzie costituzionali rispetto all’agricoltura è solo il principio del fallimento del nostro sistema democratico. Quello che oggi si fa contro questo ramo della produzione potrebbe essere fatto anche domani contro la proprietà immobiliare, il settore minerario grande, medio o piccolo, il commercio e tutti i beni particolari. Diciamo di più: la Riforma Costituzionale è l’esperienza pilota in materia di abolizione del diritto di proprietà. Introdotto questo cuneo che alcuni guardano con apprensione, il buco si trasformerà in un’immensa crepa nel quale sparirà la proprietà intera” (Questo intervento radiofonico fu riprodotto da El Mercurio il 6 gennaio 1962).

Il governo Frei insistette su questa strada, incorrendo inoltre in due altri gravi errori di politica pubblica. In primo luogo, fu debole davanti alla nascita della violenza politica, e fu specialmente grave che non reagisse con vigore in difesa della democrazia e lo Stato di Diritto quando il Partito Socialista si dichiarò sostenitore della via armata nel suo Congresso di Chillán del 1967. Secondo, la Riforma Agraria del governo Frei moltiplicò i casi di violazione del diritto di proprietà espropriando migliaia di proprietà agricole senza una giusta compensazione. Inoltre, il suo governo permise la proliferazione degli espropri di proprietà altrui da parte di gruppi di agitatori. Al governo di Frei espropriarono tutto: università, municipalità, centinaia di proprietà agricole, zone erariali, strade, industrie, un quartiere militare, e perfino la Cattedrale di Santiago. In quell’ambiente non c’era da meravigliarsi che i partiti di sinistra sentissero fattibile l’accaparramento totale del potere.
Falliti i governi di “destra” e di “centro” di Alessandri e Frei, e non esistendo, come abbiamo visto, una “sinistra” democratica, la conclusione era pronosticabile. Nell’agosto del 1965, lo stesso Frei aveva detto: “Se il mio governo fallisce, avremo un governo di estrema sinistra” (Leonard Gross The Last, Best Hope, 1967).

Ciò che risultò tanto imprevedibile quanto straordinario, alla fine del suo mandato, fu che una figura politica tanto paurosa di apparire come “anticomunista”, come Eduardo Frei Montalva, decidesse davanti al crocevia in cui lo collocò la Storia, di giocare il tutto per tutto per salvare il Cile da una dittatura marxista.

Frei viveva sotto il peso della dura accusa che gli fu avanzata alla fine degli Anni ’60 ovvero, se consegnava il governo ad Allende, sarebbe passato alla Storia come il “Kerensky cileno”. Tuttavia, decise di rimanere in Cile durante questo periodo, in circostanze tali che il suo ex ministro dell’Interno ed erede politico, Edmundo Pérez Zujovic, assassinato nel 1971 per mano dei terroristi di sinistra, dato che anche la sua stessa vita era in pericolo. Ciò contrasta con l’atteggiamento di Alexander Kerensky che scappò da San Pietroburgo e morì a New York, precisamente nel 1970, anno in cui Frei consegnò il potere ad Allende, scrivendo libri su quanto fu incapace di evitare che una banda di audaci bolscevichi si prendesse la Russia con la forza.

Frei deve avere saputo che la sua posizione sarebbe stata criticata non solo dai suoi avversari, ma perfino da molti dei suoi amici, come effettivamente fece il suo ex Ministro dell’Interno, Bernardo Leighton, che attribuì l’atteggiamento di Frei a “un vero peso sulla coscienza per il trionfo dell’Unità Popolare, che vidi cadere sul tuo spirito, opprimendolo, nei giorni posteriori all’elezione di Salvador Allende” (Lettera a Frei, 26 giugno, 1975).

Frei ritornò nell’arena politica presentandosi nelle elezioni parlamentari del marzo del 1973 come candidato a senatore per Santiago, ed una volta eletto accettò la presidenza del Senato, trasformandosi, pertanto, nell’avversario principale di Allende.

Il suo collaboratore più vicino, il senatore democristiano Patrizio Aylwin, aveva presentato, il 12 maggio del 1973, una mozione nell’Assemblea Generale del suo partito, che fu approvata, nella quale si accusava il governo di Allende di cercare di stabilire in Cile una “tirannia comunista”. Posteriormente, Aylwin rivede il progetto di Accordo, redige le sue conclusioni, e, senza dubbio dopo ottenere l’assenso di Frei, presidente del Senato e leader indiscusso dei democristiani, lo trasmette ad Orrego per l’approvazione finale. Ancora di più, è Aylwin che replica pubblicamente ad Allende dopo la risposta di quest’ultimo all’Accordo.

Per certo, i dirigenti del Partito Nazionale, capeggiati da un coraggioso e combattivo presidente, Sergio Onofre Jarpa, avevano denunciato molto presto il crescente allontanamento dalla legalità del governo dell’Unità Popolare.

Tuttavia, è logico affermare che quello che inclinò la bilancia, tanto nella popolazione come nei comandi militari, fu la posizione che Eduardo Frei assunse, con inusitata forza, in quei mesi cruciali del 1973. In qualità di Presidente del Senato, era il leader con maggiore potere per convocare l’opposizione ed era anche il dirigente cileno che, da lontano, aveva il maggiore prestigio internazionale. Non a caso, il Times di Londra l’aveva definito come “la personalità politica più importante dell’America Latina”.

Esistono testimonianze del fatto che in certi momenti, Frei ebbe la convinzione che solo le Forze Armate potevano evitare che il Cile si trasformasse in una seconda Cuba.

Nei significativi “Verbali Rivera (Acta Rivera nel testo originale)”, si descrive una riunione del 6 Luglio del 1973 tra Frei e la direzione della “Sociedad de Fomento Fabril”, la massima entità corporativa che raggruppava gli industriali cileni. Nella riunione i dirigenti gli dicono che “il paese si stava disintegrando e che se non si adottavano misure urgenti fatalmente sarebbe caduto in una cruenta dittatura marxista, alla cubana”.

La risposta di Eduardo Frei è rivelatrice: “Niente posso fare io, né il Congresso né nessun civile. Disgraziatamente, questo problema si risolve solo con i fucili... consiglio lor signori di esporre crudamente queste apprensioni, che condivido pienamente, ai comandanti in Capo delle Forze Armate, magari oggi stesso”.

La testimonianza più importante di Frei in questa materia è la sua lettera datata 8 Novembre 1973 indirizzata al Presidente della Democrazia Cristiana Internazionale, il politico italiano Mariano Rumor. Nella missiva Frei reitera le accuse che prima erano già state mosse con l’Accordo della Camera: “Trattarono in maniera implacabile di imporre chiaramente un modello di società ispirato al Marxismo Leninismo. Per riuscirci applicarono in maniera distorta le leggi o le ignorarono apertamente, ignorando anche i Tribunali di Giustizia.... In questo tentativo di dominio arrivarono a proporre la sostituzione del Congresso con una Assemblea Popolare e la creazione di Tribunali Popolari, alcuni dei quali arrivarono persino a funzionare, come fu denunciato pubblicamente. Pretesero inoltre di trasformare tutto il sistema educativo, basato su un processo di indottrinamento marxista. Questi tentativi furono vigorosamente respinti non solo dai partiti politici democratici, bensì dai sindacati e dalle organizzazioni di base di ogni specie, ed in merito all’educazione si manifestò la protesta della Chiesa Cattolica e di tutte le confessioni protestanti che fecero pubblicamente atto di opposizione. Di fronte a questi fatti la Democrazia Cristiana non poteva rimanere naturalmente in silenzio. Era suo dovere - e lo compì - denunciare questo tentativo totalitario che si presentò sempre con una maschera democratica per guadagnare tempo ed occultare i suoi veri obiettivi”.

Frei comprese anche che un Cile comunista avrebbe mirato, come una lunga spada, al cuore di una vulnerabile America Latina. Frei dice a Rumor che “la caduta di Allende è stata una retrocessione per il comunismo mondiale. La combinazione di Cuba col Cile, coi suoi 4.500 chilometri di costa sull’Oceano Pacifico e la sua influenza intellettuale e politica in America Latina, fu un passo decisivo nel tentativo di controllo quell’emisfero. Tutto ciò spiega quella violenta ed esagerata reazione. Il Cile stava per diventare una base di operazioni per tutto il continente”.

Questa prospettiva è confermata da Brian Crozier, fondatore del “London’s Institute for the Study of Conflict”: “Durante i suoi tre anni al potere, Allende trasformò il suo paese, in realtà, in un satellite cubano, e pertanto un’addizione incipiente all’Impero Sovietico... a quei tempi il Cile poteva essere francamente descritto come un stato marxista in termini ideologici ed economici... da una prospettiva strategica, era stato trasformato in un’importante base per operazioni sovversive sovietiche e cubane, incluso il terrorismo per tutta l’America Latina... il KGB sovietico stava reclutando membri per corsi di allenamento in materia terroristica... specialisti della Corea del Nord stavano insegnando a giovani membri del Partito Socialista di Allende”.(The Rise and Fall of the Soviet Empire), 1999.

In una conversazione con un giornalista del diario spagnolo ABC, edita il 10 ottobre 1973, Frei aveva dato già giudizi duri contro l’Unità Popolare e giustificato pienamente l’intervento militare: “Il paese non ha più uscita se non con un governo dei militare”; “Il mondo non sa che il marxismo cileno disponeva di un armamento superiore in numero e qualità a quello dell’Esercito”; “I militari furono chiamati, e hanno adempiuto ad un obbligo legale, perché il potere esecutivo e quello giudiziale, il Congresso e la Corte Suprema avevano denunciato pubblicamente che la presidenza ed il suo regime rompevano la Costituzione”; “La guerra civile era pronta per i marxisti”; “E’ allarmante che in Europa non vengano a sapere la realtà delle cose: Allende lasciò la nazione distrutta”.

Successivamente Frei realizzò una dichiarazione pubblica in cui riconobbe di avere parlato col giornalista Luis Calvo dell’ABC, nella quale segnala che l’intervista non rifletteva esattamente le sue parole, senza però chiarire quali furono le imprecisioni. Più tardi, nella lettera citata scritta a Leighton, Frei dice specificamente che non fece quella dura descrizione di Allende che gli è stata attribuita nell’intervista, ma non smentisce il resto. Leighton accetta quella ritrattazione su Allende, ma gli dice che gli altri giudizi sono gli stessi che gli sentì dire in maniera consistente per anni.
Un terzo testo chiave di Frei è il prologo che scrive nel libro – dal titolo eloquente - del commentatore politico democristiano Genaro Arraigada, Dalla Via Cilena alla Via Insurrezionale (1974). Lì Frei sostiene idee simili a quelle contenute nella lettera a Rumor come epigrafe del suo prologo, Frei sceglie questa avvertenza di Píndaro: “Facile è, perfino per il più debole, distruggere una città fino alle sue fondamenta; ma è, invece, un’impresa molto dura edificarla di nuovo”.
Non smette di essere sorprendente il fatto che in quello stesso 1973 in cui si scriveva il certificato di morte della democrazia cilena e morivano molti dei nobili sogni dei fondatori del PDC, decedeva anche in Francia Jacques Maritain, il filosofo-politico francese che tanto ammirava Eduardo Frei, il quale lo aveva visitato nel suo letto di malato nella sua gita di successo in Europa nel 1965.


Le Forze armate ubbidiscono

All’alba di martedì 11 settembre del 1973, esattamente 18 giorni dopo che i ministri militari ricevettero formalmente l’Accordo della Camera dei Deputati, le Forze armate cilene iniziarono in tutto il territorio un’operazione militare per compiere il mandato parlamentare.
Lo capì molto bene lo storiografo Richard Pipes, professore dell’Università di Harvard il quale ha sostenuto che, con l’Accordo, “la Camera sollecitò le Forze armate affinché restaurassero le leggi del paese. Obbedendo a questo mandato, 18 giorni dopo appunto i militari cileni, capeggiati dal generale Augusto Pinochet, rimossero con la forza Allende del suo carico” (Communism. A Brief Story, 2001).

Il 13 settembre 1973, l’influente rivista di opinione britannica, The Economist, pubblicò un editoriale intitolato “La fine di Allende” il cui contenuto è tanto rivelatore che merita essere analizzato integralmente.

La rivista è chiara nell’assegnare la responsabilità della rottura di due giorni prima: “La morte transitoria della democrazia in Cile sarà deplorevole, ma la responsabilità diretta appartiene chiaramente al Dr. Allende e a quelli tra i suoi seguaci che costantemente calpestarono la Costituzione”.

L’articolo inoltre va più in là ed assegna ad Allende la responsabilità per la violenza posteriore: “La battaglia sembra appena essere cominciata. Con la maggioranza dei canali di comunicazione del Cile interdetti verso il mondo esterno, è difficile avere un’idea più completa della violenza che apparentemente continua. Ma se una sanguinante guerra civile cominciasse, o se i generali che ora controllano il potere decidono di non richiamare a nuove elezioni, non ci sarà dubbio alcuno rispetto a chi ha la responsabilità per la tragedia del Cile. La responsabilità è del Dr. Allende e di quelli nei partiti marxisti che applicarono una strategia per controllare il potere totale, al punto che l’opposizione perse le speranze di controllarli con mezzi costituzionali”.

La spiegazione che fa la rivista britannica della situazione in Cile l’avrebbe potuto firmarla chiunque tra i deputati che approvarono l’Accordo: “Quello che accadde a Santiago non è un colpo tipicamente latinoamericano. Le forze armate tollerarono il Dr. Allende per quasi tre anni. In quel periodo, egli le inventò tutte per affondare il paese nella peggiore crisi sociale ed economica della sua storia moderna. L’espropriazione di terreni ed imprese private provocò un’allarmante caduta nella produzione, e le perdite delle imprese statali, come da cifre ufficiali, superarono i 1.000 milioni di dollari. L’inflazione raggiunse il 350 percento negli ultimi 12 mesi. I piccoli impresari fallirono; i funzionari pubblici e i lavoratori specializzati soffrirono la quasi scomparsa dei loro stipendi causa l’inflazione; le padrone di casa dovevano fare interminabili code per ottenere alimenti essenziali, se li trovavano. La crescente disperazione originò scioperi enormi tra i camionisti iniziati sei settimane fa. Ma il governo di Allende fece di più che distruggere l’economia. Violò la lettera e lo spirito della Costituzione. La forma in cui bypassò duramente il Congresso ed i Tribunali debilitò la fede nelle istituzioni democratiche del paese”.

The Economist fu uno dei pochi mezzi di comunicazione stranieri che menzionarono allora il cruciale Accordo del 22 di agosto: “Il mese scorso, una risoluzione promossa dalla maggioranza oppositrice nel Congresso segnalava che il governo non è responsabile solo per violazioni isolate della Costituzione e della legge; ma ha trasformato tali violazioni in un metodo permanente di condotta”.
Per la rivista britannica la causa del golpe “furono gli sforzi degli estremisti di sinistra per promuovere la sovversione dentro le Forze Armate. Il signor Carlos Altamirano, ex segretario generale del partito socialista, ed il signor Óscar Garretón del Movimento di Azione Popolare Unitaria, entrambi leader dell’Unità Popolare di Allende, furono segnalati dall’esercito come gli autori intellettuali del piano di ammutinamento dei marinai in Valparaíso.... Il comune sentire relativo al fatto che il Parlamento fosse già irrilevante aumentò causa la violenza per le strade e per il modo in cui il governo tollerò la nascita di gruppi armati di estrema sinistra che si stavano preparando in maniera aperta per la guerra civile”.

The Economist giustifica pienamente l’intervento militare quando sostiene che “le forze armate intervennero solo quando fu chiaramente stabilito che esisteva un mandato popolare per l’intervento militare. Le Forze Armate dovettero intervenire perché fallirono tutti i mezzi costituzionali per frenare un governo che si comportava in maniera incostituzionale”, e fa un’importante precisazione: “Il Generale Pinochet e gli ufficiali che l’accompagnano non sono fanti di nessuno. Il suo golpe fu preparato in casa, ed i tentativi per fare credere che i nordamericani fossero implicati sono assurdi, specialmente per chi conosce la cautela dei nordamericana nelle loro recenti trattative col Cile”.
The Economist anticipa, in primo luogo, che il compito di ricostruzione sarà difficile e che ci saranno eccessi ed ingiustizie: “Chiunque sia il governo che sorga dal colpo militare, non può aspettarsi tempi facili. Anche quelli che soffrirono sotto il governo di Allende sentiranno la tentazione di saldare i conti con gli sconfitti”. Secondo, anticipa la collaborazione militare con economisti civili anticipando: “Il governo militare-tecnocratico che sta apparentemente prendendo forma cercherà di ricostruire il tessuto sociale che il governo di Allende ha distrutto”. E conclude con un lamento ed una verità: “Questo significherà la morte transitoria della democrazia in Cile, il che è deplorevole, ma non deve essere dimenticato chi ha reso tutto questo inevitabile”.


La conclusione naturale

Alexander Solzhenytsin, il grande scrittore ed intellettuale russo che denunciò l’orrore dei campi di concentramento nell’Unione Sovietica, affermò che “il comunismo si blocca solo quando trova una muraglia”.

Man mano che il governo dell’Unità Popolare restringeva le libertà economiche, sociali e politiche col proposito di fare la sua rivoluzione marxista, sorse, dai più diversi ambiti della società cilena, una forte resistenza civile che si trasformò presto in una valanga di proteste, manifestazioni, scioperi e denunce.

Alla fine fu questa pressione della civiltà quella che spinse ai partiti politici di opposizione all’approvazione dell’Accordo della Camera di Deputati, e dopo le Forze Armate ad obbedire alla chiamata dell’Accordo stesso, rimuovendo con la forza il presidente in carica che stava violando “sistematicamente” la Costituzione della Repubblica.

La resistenza civile generalizzata che si concluse con l’Accordo della Camera di Deputati fu “la muraglia” alla quale si trovò di fronte il comunismo in Cile. Questo Accordo, insomma, costituisce l’inizio della fine del governo del Presidente Allende ed il certificato di battesimo del governo del Presidente Pinochet.

Come affermò uno degli uomini chiave dietro l’Accordo, ed allora Presidente della Democrazia Cristiano, Patrizio Aylwin: “Il governo di Allende aveva esaurito, con un totale fallimento, la via cilena verso il socialismo e si apprestava a consumare un autogolpe per instaurare con la forza la dittatura comunista. Il Cile visse sull’orlo del “Golpe di Praga” che sarebbe stato tremendamente sanguinoso, e le Forze Armate non fecero altro che anticipare quel rischio imminente” (El Mercurio, 17 settembre 1973).

Non fu un’affermazione isolata del futuro Presidente del Cile. Un mese dopo, Aylwin ratificò così il suo pensiero: “La verità è che l’azione delle Forze Armate e dei Carabineros non è stata altro che una misura preventiva che anticipò un autogolpe di Stato, che con l’aiuto delle milizie armate dal potere militare di cui disponeva il Governo e con la collaborazione di non meno di diecimila stranieri presenti in questo paese, pretendevano o avrebbero instaurato una dittatura comunista” (La Prensa, 19 ottobre 1973).

È impossibile, alla luce di tutti questi antecedenti, non concludere che l’intervento militare fu il risultato di una ribellione civile davanti ad una tirannia. Questo fu legittimo ed inevitabile, dunque, come ha sostenuto Vaclav Havel, un uomo che soffrì per varie decadi la dittatura comunista nel suo paese, “il male deve essere affrontato nella culla e se non c’è nessuna altra maniera per farlo, allora bisogna farlo con l’uso della forza” (New Yorker 6 gennaio, 2003).


I fatti dimostrano allora che:

a) Il Presidente Salvador Allende fu il principale responsabile della sua propria fine, perché commise un suicidio politico dichiarandosi in rivolta contro la Costituzione della Repubblica.

b) L’allora Presidente del Senato, Eduardo Frei Montalva, fu il leader determinante della resistenza civile che si concluse con l’accusa che il governo di Allende aveva commesso venti violazioni alla Costituzione e con una chiamata all’intervento delle Forze Armate.

c) Le Forze Armate, rimuovendo il governo socialista-comunista dell’Unità Popolare, obbedirono ad un mandato morale e politico della Camera di Deputati, un braccio dello stesso Congresso che nel 1970 aveva scelto Presidente Salvador Allende.

Qualcosa di sorprendente accadde immediatamente in quella fredda notte del 22 di agosto del 1973 dopo la fine della votazione dell’Accordo. Alcuni deputati dell’opposizione cominciarono a cantare l’Inno Nazionale. E quel gesto cominciò ad essere imitato da altri fino a che tutta la Camera alla fine si alzò in piedi intonando l’inno patrio.
In quell’amore per il Cile, condiviso da tutti, sopravviveva la speranza.





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Post Scriptum. Ho scritto questo saggio come contributo alla causa che vuole che mai più si rovini la democrazia in Cile, rispetto alla quale penso di conoscere le ragioni che la distrussero e proporre per il futuro tre principi fondamentali per una convivenza civile pacifica:

a) In nessuna circostanza, senza alcuna giustificazione, ed in nessun modo, un gruppo deve propugnare, e molto meno iniziare, la violenza come meccanismo di cambiamento economico, sociale o politico sotto un regime democratico;
b) Quando inizia la violenza in qualche settore, questa deve essere stoppata immediatamente dal governo in carica, dentro la legge ma applicando tutta la forza della legge;
c) Il rifiuto di tutti coloro che propiziano ed esercitano la violenza, e l’appoggio al governo che la combatte con mano ferma, deve contare con l’appoggio unanime e deciso della società politica e della società civile.

Josè Pinera.

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