 Maria  Pasquinelli.
Maria  Pasquinelli.
Maria Pasquinelli (Firenze, 1913) si era diplomata maestra elementare e  successivamente laureata in pedagogia a Bergamo. Fascista fervente, frequentò la  Scuola di Mistica Fascista. Nel 1940 si era arruolata volontaria crocerossina al  seguito delle nostre truppe in Libia. Era animata da un fervente amore per la  patria, che le faceva trascurare gli affetti sentimentali e familiari. Sul  fronte libico notò "l'insufficiente partecipazione al combattimento di chi  l'aveva predicato" e il basso morale delle truppe "non illuminate da alcun  ideale". Nel novembre 1941 lasciò l'ospedale di El Abiar (a 40 Km da Bengasi),  dove lavorava, per raggiungere la prima linea travestita da soldato con la testa  rapata e documenti falsi. Fu scoperta, riconsegnata ai suoi superiori e  rimpatriata in Italia. Nel gennaio 1942 chiese di essere inviata come insegnante  in Dalmazia e per qualche tempo insegnò l'italiano a Spalato (allora annessa  all'Italia nel Governatorato di Dalmazia).
Dopo l'8 settembre 1943, e le  stragi di italiani compiute in Dalmazia ed Istria dai titini, aiutó a recuperare  le salme dei militari e a documentare le atrocità delle foibe.
A Spalato  trovò una fossa comune dove erano sepolti 200 militari della "Bergamo" e  partecipò al recupero di altre centinaia di infoibati.
Stabilitasi a  Trieste, subissò di memoriali e di denunce le autorità della RSI. Cercò di  stabilire contatti tra la Decima Mas e i partigiani della "Franchi" e della  "Osoppo" col proposito di costituire un blocco per la difesa dell'italianità nel  confine orientale. Per questa attività venne arrestata dai tedeschi e minacciata  di deportazione. Fu salvata da un intervento personale di Junio Valerio  Borghese.
La mattina del 10 febbraio 1947 il brigadiere generale W. De  Winton (comandante della guarnigione britannica di Pola) lasciò di buon ora il  suo alloggio. Lo attendeva una giornata impegnativa. In quelle stesse ore a  Parigi si stava firmando il trattato di pace da parte dei rappresentnati del  governo italiano ed a lui sarebbe toccato il compito di cedere l'enclave di Pola  alla Jugoslavia.
Quella mattina faceva molto freddo, c'era una bora gelida  che spazzava le strade della città che pareva in disarmo, le luci dei bar erano  spente, le saracinesche dei negozi abbassate e gruppi di persone si affannavano  imprecando intorno a carri e carretti colmi di masserizie. I cittadini di Pola  si erano illusi nei venti mesi di presenza di militari alleati di sfuggire al  destino di passare sotto la Jugoslavia, destino che aveva già colpito gli  italiani di quasi tutta l'Istria e della Venezia Giulia.
Ma ora bisognava  fare i conti con la realtà: per espresso desiderio, il passaggio di poteri sulla  città di Pola avrebbe avuto luogo in concomitanza con la firma del trattato di  pace. Per l'occasione, la guarnigione britannica era stata schierata davanti  alla sede del comando ed il generale De Winton fu invitato a passarla in  rassegna.
La cerimonia si svolse sotto la pioggia e davanti a pochi curiosi  dai quali si levarono mormorii di disapprovazione e qualche grido ostile: i  polesani si sentivano abbandonati e traditi dai loro protettori.
De Winton  stava avanzando verso il reparto schierato quando, dalla piccola folla presente,  si staccò la Pasquinelli che si diresse verso l'ufficiale. Fu questione di un  istante: estrasse dalla borsetta una pistola e fece ripetutamente fuoco senza  pronunciare una sillaba.
Tre proiettili colpirono al cuore il generale che  morì sul colpo, un quarto colpo ferì il soldato che aveva cercato di  proteggerlo.
Per qualche giorno le autorità militari alleate mantennero il  massimo riserbo. Del delitto furono lasciate circolare le versioni più  strampalate: isterismo, delitto passionale, provocazione fascista o titina e  così via.
Grazie ad Indro Montanelli, presente a Pola come inviato del  Corriere della Sera, fu possibile conoscere la vera motivazione dell'attentato  che spiegava le ragioni del delitto.
In tasca della Pasquinelli venne  trovato un biglietto-confessione nel quale spiegava le ragioni che l'avevano  portata a compiere quel gesto. In questo biglietto dopo un preambolo   sull'italianità dell'Istria e sul sangue versato dai martiri italiani si  leggeva: "Io mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la  sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di  Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica,  hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre  d'Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più  fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la  nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di  esilio"
Dopo l'attentato, che da parte della stampa venne giudicato come un  "rigurgito fascista", il corrispondente da Pola dell'Associated Press Michael  Goldsmith scrisse:
« Molti sono i colpevoli, i polesani italiani non trovano  nessuno che comprenda i loro sentimenti. Il governo di Roma è assente, gli slavi  sono apertamante nemici in attesa di entrare in città per occupare le loro case,  gli Alleati freddi ed estremamente guardinghi. A questi, specie agli inglesi,  gli abitanti di Pola imputano di non avere mantenuto le promesse, di averli  abbandonati. »
Maria Pasquinelli fu processata due mesi dopo il fatto dalla  Corte Militare Alleata di Trieste. Il dibattito si svolse senza tumulti né colpi  di scena. L'imputata si dichiarò colpevole e spiegò le ragioni che l'avevano  indotta a compiere l'attentato. Una sola volta l'aula fu fatta sgombrare dal  presidente Chapman. Accadde quando il difensore avv. Giannini, invitato dal  presidente ad adeguarsi alla procedura seguita dalla Corte alleata, rispose: 
« Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano  che difende un'italiana »
Nell'aula il pubblico applaudì e si udirono grida  "Viva l'Italia". Fu allora che l'aula venne fatta sgombrare. Il 10 aprile la  Corte alleata pronunciava la sentenza che la condannava a morte, l'imputata si  raccolse in silenzio, il pubblico rumoreggiò e le donne scoppiarono in  singhiozzi. Il giorno seguente Trieste fu inondata da una pioggia di manifestini  tricolori sui quali era scritto:
« Dal pantano d'Italia è nato un fiore:  Maria Pasquinelli »
In seguito, la pena capitale fu commutata nel 1954 in  ergastolo e fu trasferita nel penitenziario di Perugia. Nel 1964 tornò in  libertà, ma non ha mai concesso interviste. Maria Pasquinelli ha cercato di  farsi dimenticare da allora e tuttora vive a Bergamo.
 
2 commenti:
Ecco i commenti:
#1 10 Febbraio 2008 - 14:03
sei davvero pessimo
pizz
utente anonimo
#2 10 Febbraio 2008 - 17:41
Lo so, Pizzì...
:-) !
Vandeaitaliana
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